L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Siparietti vivaldiani

di Francesco Lora

Al Malibràn di Venezia per il Teatro La Fenice, Il Tamerlano o Il Baiazet, “pasticcio” dal doppio titolo, è spettacolo d’assoluta eccellenza nella lettura musicale di Federico Maria Sardelli, spettacolo traballante sul fronte vocale – con, però, le prove immacolate di Loriana Castellano e Valeria La Grotta – nonché spettacolo degno d’essere discusso nel nuovo allestimento con regìa di Fabio Ceresa, scene di Massimo Checchetto e costumi di Giuseppe Palella.

VENEZIA, 11 giugno 2024 – S’intitola Il Tamerlano per il librettista Agostino Piovene e per coloro che sfogliarono postumo il dramma, revisionato e stampato a cura di Antonio Vivaldi non solo compositore ma anche impresario, alle storiche recite del carnevale 1735 nel Teatro Filarmonico di Verona. S’intitola invece Il Baiazet per Vivaldi stesso, nel mettere un’etichetta provvisoria alla sua partitura d’archivio, nonché per chi fa riferimento a essa per approcciare questo “pasticcio” con musiche vivaldiane, di Riccardo Broschi, Geminiano Giacomelli e Johann Adolf Hasse. Lo si era lasciato, l’anno scorso, dopo le penose recite a Ravenna, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Modena e Lucca: il regista, scenografo e costumista Stefano Monti, con i coreografi Marisa Ragazzo e Omid Ighani, pretendeva d’inculcare la danza in un’opera che non ne predispone i metri, mentre il concertatore Ottavio Dantone dirigeva con apparente disinteresse una partitura così arbitrariamente adulterata, da far ascoltare strutture musicali inesistenti all’epoca di Vivaldi. Tutto il contrario è avvenuto – soprattutto in ciò che attiene alla lettura della partitura: la migliore mai attuata tra le numerose riprese contemporanee – nel nuovo allestimento di questo “pasticcio” al Teatro Malibràn di Venezia e per conto del Teatro La Fenice, con cinque recite dal 7 al 15 giugno.

Concertazione fortunatamente spettante a Federico Maria Sardelli, il massimo specialista vivaldiano sul quale si possa oggi contare. Il che significa: via i personali vezzi interpretativi da un testo nel quale sono subito individuate le strade maestre e svolte le richieste obbliganti; via l’abuso di oboi, fagotto, tiorba e chitarra da una partitura che non li prevede in sé e nemmeno per contesto culturale; via le interpolazioni a casaccio là ove qualche aria manca e deve essere ripristinata con un’altra di uguale carattere; avanti, invece, con un’orchestra forte dei due clavicembali d’ordinanza nell’età moderna, prestante, poi, grazie ai suoi strumenti moderni ma elegante come se ne imbracciasse di antichi; avanti, infine, con un accurato restauro della partitura, scegliendo tra brani coevi vivaldiani, vuoi sopravvissuti all’altrimenti perduta Semiramide, vuoi appartenenti all’altro “pasticcio” Rosmira; il tutto in vista di una direzione al solito svelta, ficcante, oggettiva, illuministica.

È un peccato, allora, che la compagnia di canto rispecchi ancora una volta le carenze di sensibilità e le spregiudicatezze di mercato imperanti sul repertorio antico. Quasi ogni suo membro, tanto per cominciare, porta con sé – ammesso che di poetica e tecnica valga la pena parlare – un individuale indirizzo tecnico e poetico, conciliabile a pugni con quello dei colleghi. Come se a una tavolata si fosse invitati a ingurgitare tutt’insieme frollini e sardine, cous cous e zuppa inglese, fiorentina e sushi, nutella e cipolle: lo stomaco del lettore sta andando come l’ascolto del critico? A uscirne musicalmente immacolate sono Loriana Castellano, che della prima donna Asteria sa assortire con caldo e nobile canto l’austerità e la tenerezza, e Valeria La Grotta, che in Idaspe trova un comprimario teatrale irto di trappole virtuosistiche (domandole). Non giovano, per contro, lo sfiorimento dei mezzi al Tamerlano di Sonia Prina, la loro timidezza al Baiazet di Renato Dolcini, i birignaosi tic vocali all’Andronico di Raffaele Pe né il tracotante arrischiarsi della benvoluta Lucia Cirillo nella parte dell’altra e paritetica prima donna, Irene (comprensiva della micidiale aria «Qual guerriero in campo armato», composta per un Farinelli allo zenit e da scomodare con reverenza).

Quanto alla regìa di Fabio Ceresa, alle scene di Massimo Checchetto, ai costumi di Giuseppe Palella, alle luci di Fabio Barettin e ai video di Sergio Metalli, si tratta di uno spettacolo impegnato e vittorioso sul fronte dell’invenzione, della recitazione e della scenotecnica. Dal punto di vista drammaturgico è audace, interessante ma a doppio taglio: i recitativi, tramite i quali l’azione principalmente procede, sono antiteticamente declamati al proscenio, con i cantanti che simulano, dietro i leggii, una prova all’italiana, e dunque la più immobile versione del teatro-nel-teatro; in modo opposto, all’attacco di ciascuna delle oltre venti arie, statiche per loro normale funzione, si apre il sipario-nel-sipario e si assiste a un imprevedibile siparietto, ispirato liberamente e con alto tasso d’ironia, evocazione o citazionismo. È realizzato bene, dunque va non male. Il peccato originale è che si finisce a prendere soltanto in ridere, così, un lavoro tragico dal notevole e intatto spessore morale, il quale avrebbe parecchio di che far riflettere anche l’uomo del terzo millennio: liquidando con svilente noncuranza l’eredità del passato, si butta di fatto in vacca l’attuale coscienza del sé stesso.


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