L’Ape musicale

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Jesi, Tosca senza Tosca

JESI, 15 dicembre 2022 - Si chiude la stagione lirica della Fondazione Pergolesi Spontini e l'unica opportunità per intercettare questa Tosca – dopo che non era stato possibile assistere agli spettacoli precedenti – è l'anteprima per le scuole. Tanto meglio, si mette in conto la possibilità che qualcuno, alla vigilia del debutto ufficiale, si risparmi un po', ma si può entrare in contatto con le attività di formazione per il pubblico più giovane. La sala, infatti, si popola di ragazzi per lo più delle superiori, come sempre in questi casi bisogna sopportare qualche chiacchiera intemperante, ma si gode anche dell'atmosfera che si crea quando invece l'opera comincia a conquistare la sala. Certo, sul limbo fra rapimento e distrazione si affollano gli interrogativi: sapranno queste esperienze istillare la curiosità a tornare a teatro anche in autonomia? Da dove viene la diffusa incapacità a stare zitti per tutta la durata di uno spettacolo? Qualcuno ha mai spiegato che il fischio non è inteso come segno di approvazione e anche certi acuti ululati durante gli applausi non sono ben catalogabili nei codici dell'assenso o del dissenso? Frattanto, però, se qualcuno si distrae non possiamo fargliene una colpa, perché non è proprio facile seguire una “Tosca senza Tosca”, con la titolare Francesca Tiburzi assente per indisposizione e sostituita nell'azione dall'aiuto regista, mentre per il canto non si trova rimedio. Nel primo atto silenzio, con giusto qualche frase lanciata dal direttore Nir Kabaretti per dare le direttive all'orchestra e al resto del cast. Negli atti successivi contribuisce, accennando dalle quinte, anche una maestra collaboratrice, ma non può sostituire sempre la voce assente, sicché l'effetto per chi conosce l'opera è quasi di una versione karaoke in cui, mormorando sotto la mascherina, ci si mette alla prova nella memoria degli attacchi esatti (non è facile, anche per un'opera che sembra di sapere da sempre per osmosi). Con abilissimo esercizio retorico il direttore artistico Carrara pone l'accento sulla possibilità di concentrarsi sulla scrittura orchestrale di Puccini: verissimo, sia perché la partitura è oggettivamente un capolavoro di drammaturgia strumentale, sia perché la Filarmonica marchigiana ammalia ancora con il bel suono e i frutti del lavoro degli ultimi due anni (e siccome piange il cuore ricordarlo, non torniamo sulle tristi vicende della fine di quell'esperienza e sulla paralisi amministrativa che la fa ancora navigare a vista). D'altra parte, però, ci si rende ancor più conto conto che l'organismo della partitura non vive di segmenti separati e in molti punti l'attacco è dato inesorabilmente dalla voce, dall'atto teatrale, dal gesto musicale della scena in relazione a quello in buca. È ovvio, sì, tanto ovvio da parer scontato finché non se ne fa a meno. Va da sé che il direttore non possa concertare granché e si prodighi per far funzionare il più possibile ciò che deve esser provato, a maggior ragione di fronte a un pubblico. Devid Cecconi (Scarpia) e Raffaele Abete (Cavaradossi) sono comprensibilmente un po' impacciati nel dialogare e duettare da soli, con una Tosca muta. I ragazzi in sala alla fine, giustamente, li premiano.

Anche sulla regia di Paul Emile Fourny, coprodotta con Metz, è ovviamente difficile, e forse nemmeno giusto, dir molto. Una certa staticità è connaturata alla necessità di condividere l'allestimento in teatri di piccole dimensioni e limitate risorse scenotecniche, ma semmai può lasciar perplessi l'idea di animarla con degli “angeli custodi” che sembrano più che altro le versioni zombie di Tosca, Cavaradossi, Scarpia e Angelotti tornati ad assistere alla storia delle loro morti.

Citiamo ancora il Coro lirico marchigiano Vincenzo Bellini preparato da Riccardo Serenelli, i Pueri cantores “D. Zamberletti” di Macerata diretti da Gian Luca Paolucci, Alessandro Della Morte (Cesare Angelotti/un carceriere), Giacomo Medici (Sagrestano/Sciarrone/un gendarme), Orlando Polidoro (Spoletta), Petra Leonori (pastorello). Le scene sono firmate dal regista con Patrick Méeus, che cura anche le luci; i costumi sono di Giovanna Fiorentini, bello soprattutto il primo di Tosca, mentre per Scarpia forse si potevano evitare i pantaloni attillati in pelle nera.

Alla fine, fra i tanti quesiti, un rammarico: tanti, troppi teatri sono costretti a rinunciare alle cover. Lo capiamo, non tutti hanno i mezzi per pagare cantanti potenzialmente a vuoto. Tuttavia, per tanti giovani può essere un'ottima palestra per studiare il repertorio e crescere professionalmente senza bruciarsi con esposizioni premature. Una “Tosca senza” ci insegna tante cose, anche che sarebbe bello poter evitare senza patemi d'animo gli inconvenienti che fanno parte del quotidiano.


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