L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Note di Giovanni Sollima

Ci sono quattro piani percettivi, tanti quante le persone che hanno lavorato a questo progetto. Letizia Battaglia con le immagini, per cominciare, con le sue foto che hanno attraversato il tempo, la storia, che hanno il solco degli eventi che rappresentano e al tempo stesso - proprio per la distanza - raccontano visi sempre più immobili.

C’è il testo di Attilio Bolzoni, appassionato e lucido, e per questo poetico, e ci sarà il suo timbro di voce. C’è la mia musica. E c’è il lavoro di Cecilia Ligorio. La sua regia, in tutta questa storia, ha un ruolo importantissimo perché mette in comunicazione tre approcci anche abbastanza diversi.

Quindi sono quattro piani di percezione individuali, che a tratti scorreranno insieme, ma anche staccati uno dall’altro, o si sfioreranno e non so cos’altro.

Il Caravaggio rubato e la musica. Ho diviso la partitura in tre blocchi, la forma è vagamente quella dell’oratorio. I tre blocchi contengono al loro interno dei movimenti veri e propri, cambi di tempo, di registro, di interventi, dal coro all’orchestra, dalle percussioni (prevalentemente ad acqua) al solo del violoncello, si intrecciano, si scollano, si ritrovano. Così ho pensato per la Natività, come per il Coro, per il quale ho riscritto in parte il Gloria del compositore medievale Guillaume de Machaut, tanto lontano e, al tempo stesso, con una vocalità e un sistema intervallare che ancora oggi risiede in certa musica: quella dei Balcani (ma è solo un esempio), che l’Europa - composta, mappata o rimappata - ha totalmente dimenticato.

È un de Machaut della Messe de Notre Dame a testa in giù: ho ribaltato i ruoli vocali originari, ho allargato l’immagine sonora di alcuni dettagli, di alcune contrazioni muscolari, dello stesso dolore che sembra venir fuori, ho cercato di mostrare i nervi scoperti, i tendini, l’urlo soffocato o la parte più sommessa, quasi come una litania. È una lunga citazione. Da questa ho estratto poche note che - seppure in continua variazione - saranno presenti e forse riconoscibili per tutto il lavoro.

Ho lasciato che il testo di Bolzoni restasse racchiuso nella voce stessa del suo autore. Il coro canta altro. Prima una sola parola, ossessiva, in latino, in forma imitativa. Più tardi un testo (solo il testo) di Carlo Gesualdo da Venosa: è tratto dal VI libro di Madrigali, lo trovo sublime per come racconta una forma di assenza. 

Beltà, poi che t’assenti,

Come ne porti il cor

Porta i tormenti.

Ché tormentato cor 

può ben sentire

La doglia del morire,

E un’alma senza core

Non può sentir dolore.

L’intera partitura ha la forma della variazione. Prendo spunto da qualcosa del passato: oltre che il Gloria di de Machaut e i versi di Gesualdo, c’è un ground di tre misure, ipnotico (quasi un dolmen, sì, proprio un dolmen), attribuito al compositore cinquecentesco Thomas Preston, sul quale costruisco altro, fino a un ritmo pressante e catartico, quasi un rituale. Nel frattempo le percussioni hanno abbandonato l’acqua.

Le citazioni sono pretesti, frammenti come reperti, che segnano e scandiscono, stratificandosi, quindi sommandosi. Ogni passaggio rincorre variazioni sull’assenza. Nel terzo e ultimo blocco sono palesemente indicate come Variazioni I, II e III. La terza, in corrispondenza dell’Angelus, ha diverse opzioni sonore, tutte sovrapposte, dal liuto alla viola da gamba e alla chitarra elettrica. Quasi un’allucinazione sonora.

Quella del Caravaggio rubato non è una partitura narrativa e nemmeno una colonna sonora. Anzi, a tratti volta le spalle alla narrazione stessa, alla logica del sottolineare o dell’esaltare. Non ci sono riferimenti specifici al fatto in sé (il quadro assente) né a una Palermo ancora una volta da analizzare, da spiegare.

Ho sentito la necessità di fare evaporare il peso e lasciare tutto in astratto. Chi ascolta può interpretarlo liberamente: gli ingredienti dovrebbero esserci tutti, dal silenzio alla reattività. Per fortuna la musica può ancora farlo.


 

 

 
 
 

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