L’Ape musicale

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Oratorio giornalistico al Teatro Massimo

Il Caravaggio rubato”, tre grandi siciliani raccontano la Palermo del furto

Al Teatro Massimo l’opera di Giovanni Sollima, Letizia Battaglia, Attilio Bolzoni

Un “oratorio giornalistico” in scena sabato 5 e domenica 6, regia di Cecilia Ligorio

PALERMO. Fu rubato nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo, un episodio che racconta una stagione cruciale della città di Palermo, oppressa dalla violenza mafiosa e dal silenzio. Al furto della Natività di Caravaggio, mai più ritrovata, è ispirata l’opera in programma al Teatro Massimo di Palermo sabato 5 (alle 20.30) e domenica 6 marzo (alle 17.30), in prima esecuzione assoluta. Un progetto che mette insieme tre grandi siciliani: il compositore e violoncellista Giovanni Sollima, la fotografa Letizia Battaglia, il giornalista e scrittore Attilio Bolzoni.

Sollima firma le musiche (oltre che dirigere l’Orchestra e suonare la parte del violoncello solista), Battaglia le immagini, Bolzoni il testo, di cui è voce recitante. Regia di Cecilia Ligorio, video di Igor Renzetti, Orchestra e Coro del Teatro Massimo, maestro del Coro Pietro Monti. Allestimento su commissione del Teatro Massimo, in coproduzione con il Teatro Massimo Bellini di Catania. Oggi la presentazione alla stampa con il sindaco e presidente della Fondazione Teatro Massimo, Leoluca Orlando; il sovrintendente del Teatro, Francesco Giambrone; il direttore artistico Oscar Pizzo; l’assessore alla Cultura del Comune, Andrea Cusumano; Letizia Battaglia; Giovanni Sollima, Attilio Bolzoni, Cecilia Ligorio, Igor Renzetti.

L’opera rientra nell’ambito delle celebrazioni per gli ottanta anni di Letizia Battaglia, che il 5 marzo prevedono anche l’inaugurazione di una grande mostra, chiamata “Anthologia”, voluta da Leoluca Orlando e promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune in collaborazione con la Fondazione Sambuca allo spazio Zac dei Cantieri culturali alla Zisa, quale omaggio alla sua carriera.

Leoluca Orlando ha annunciato la nomina di Letizia Battaglia a direttore artistico del Centro internazionale di Fotografia in corso di realizzazione ai Cantieri culturali della Zisa: “Siamo felici – ha detto – che i festeggiamenti per Letizia si concludano con una splendida opera in questo teatro che è sempre più il faro di Palermo. Questo spettacolo vede insieme tre straordinari protagonisti della vita artistica e culturale del nostro Paese”.

“Abbiamo commissionato questa nuova produzione – dice il sovrintendente Francesco Giambrone – nella consapevolezza che il Caravaggio rubato è il simbolo di una Palermo e di una stagione di Palermo. Lo abbiamo fatto puntando su tre grandi voci della contemporaneità siciliana che sono coinvolti nella storia di questa città”.

“Un teatro che sa parlare tutti i linguaggi – ha detto Oscar Pizzo – che guarda al contemporaneo, che parla della città e del mondo”. “Nel nome di Letizia – ha aggiunto Andrea Cusumano – si celebra un momento importante di confronto e di condivisione tra il Comune e l’istituzione culturale principe della città, il Teatro Massimo”.

La storia del Caravaggio rubato si intreccia con quella della mafia. Sono tanti i collaboratori di giustizia che hanno parlato del quadro e della sua sorte. Divorato da topi e maiali come sostenne il pentito Gaspare Spatuzza, esibito a mo’ di trofeo ai summit di Cosa Nostra, usato da Totò Riina come scendiletto, perduto nel terremoto dell’Irpinia mentre stava per essere venduto, come testimoniarono picciotti e boss.

Di sicuro della “Natività” di Caravaggio, il capolavoro seicentesco dell’artista fuggito in Sicilia dall’accusa di omicidio non c’è traccia da quasi mezzo secolo. Di recente un “clone” dell’opera è stato collocato al posto del dipinto rubato. Tra i primi a scrivere del furto fu il cronista del giornale “L’Ora” Mauro De Mauro, che sarebbe stato rapito il 16 settembre dell’anno successivo, in un intreccio di mafia e servizi segreti.

“Ringrazio per questa festa – ha detto Letizia Battaglia – adesso bisognerà pensare a che cosa fare per i miei 90 anni! Faccio appello al Comune perché il Centro internazionale di Fotografia possa essere inaugurato al più presto. Dopo questa grande mostra non farò più la fotografa, ma voglio dedicarmi a quello spazio, non voglio morire prima che sia completato. Uno spazio che non sarà soltanto dedicato alla fotografia, ma dove ci si incontrerà per stare bene e per esprimere il proprio talento. Uno spazio per la poesia e per l’arte”.

“Quella de IlCaravaggio rubato – spiega Giovanni Sollima - non è una partitura narrativa e nemmeno una colonna sonora. Anzi, a tratti volta le spalle alla narrazione stessa, alla logica del sottolineare o dell’esaltare. Non ci sono riferimenti specifici al fatto in sé (il quadro assente) né a una Palermo ancora una volta da analizzare, da spiegare. Ho sentito la necessità di fare evaporare il peso e lasciare tutto in astratto. Chi ascolta può interpretarlo liberamente: gli ingredienti dovrebbero esserci tutti, dal silenzio alla reattività. Per fortuna la musica può ancora farlo”. E ancora: “Ho diviso la partitura in tre blocchi, la forma è vagamente quella dell’oratorio. I tre blocchi contengono al loro interno dei movimenti veri e propri, cambi di tempo, di registro, di interventi, dal coro all’orchestra, dalle percussioni (prevalentemente ad acqua) al solo del violoncello, si intrecciano, si scollano, si ritrovano”.

“La celebre tela – aggiunge la regista, Cecilia Ligorio - è il punto di partenza per una drammaturgia in cui suoni e immagini cercano il quadro rubato, perdendosi nelle vie di una Palermo che per quasi un trentennio è stata scossa ferocemente da fatti di morte e di sangue per riemergere, a fatica, tra la gente di oggi, in una città che, nonostante tutto, non ha mai smesso di interrogarsi sulla propria identità e sull’orgoglio di un futuro senza mafia. L’Opera che ne è venuta fuori è un puzzle tenuto insieme da associazioni sottili, un percorso intuitivo, una sinestesia: guardiamo un quadro attraverso la musica”.

“Per tornare alla Kalsa, all’oratorio di San Lorenzo – racconta Bolzoni - sono partito dai luoghi che per lunghi anni ho attraversato. Non potevo che partire da quello che ho sempre considerato e considero la ‘mia’ Palermo, per provare a ricongiungermi con la musica di Giovanni Sollima e le immagini di Letizia Battaglia, con i video di Igor Renzetti e con l’arte di Cecilia Ligorio che ha messo insieme tutti noi davanti a una nascita, davanti a un bambino. Chi ha conosciuto Palermo tanto tempo fa - alla fine degli Anni Settanta, o alla metà degli Anni Ottanta, o al principio degli Anni Novanta – lo sa che questa città ha intrapreso un cammino faticoso e doloroso che l’ha portata, più di chiunque altro luogo nel nostro Paese, a cambiare. Quest’idea ha rappresentato una guida, una bussola nella stesura del mio lavoro. La rappresentazione della nascita di un bambino è stata l’occasione per onorare questo grande cambiamento di Palermo. Ho presente quali sono le contraddizioni che ancora si rimescolano nelle viscere della città e dell’isola, trasformismi, travestimenti, maschere. Ma ho capito che Palermo ha dentro di sé, ancora una volta, le energie per esprimere la sua voglia di spostarsi in avanti sotterrando il suo passato peggiore”.


Note di Attilio Bolzoni

Anche se ci sei stato dentro per tanto tempo, anche se pensi di conoscerla nelle sue pieghe più intime e inaccessibili, scrivere di Palermo non è mai facile. A volte mi sembra di saperne molto di Palermo, a volte niente.

Quando mi sono messo davanti a un foglio bianco – in certi momenti ho bisogno della carta per segnare i pensieri – per scoprire dove avrei potuto iniziare questa mia lunga e un po’ immaginifica cronaca palermitana (dopotutto, sono sempre solo un giornalista) su questo celebre quadro rubato – un furto che non è solo un furto - mi sono affidato all’istinto e lasciato trasportare nella città. Il territorio racconta sempre tutto. Me l’ha insegnato Palermo.

Piazze, chiese, monumenti, strade, vicoli, fontane, muri, chiese, palazzi, giardini, piante. Per tornare alla Kalsa, all’oratorio di San Lorenzo, sono partito dai luoghi che per lunghi anni ho attraversato. Non potevo che partire da quello che ho sempre considerato e considero la «mia» Palermo, per provare a ricongiungermi con la musica di Giovanni Sollima e le immagini di Letizia Battaglia, con i video di Igor Renzetti e con l’arte di Cecilia Ligorio che ha messo insieme tutti noi davanti a una nascita, davanti a un bambino.

A ogni passo ho avuto un dubbio, a ogni pagina di questo testo che stava nascendo sul «Caravaggio rubato» ho sempre avuto un’incertezza che apparentemente mi ha agitato e rallentato, ma poi quella stessa incertezza ha permesso di liberare molti dei miei ricordi.

Avrei voluto metterci dentro tanto di più. Di Palermo e del resto. Il resto che poi, per me, è sempre Palermo.

Palermo vista da lontano. Palermo a confronto con altri mondi. Palermo prima e Palermo dopo.

La scrittura è sempre stata accompagnata da una convinzione, forse complicata da far comprendere sino in fondo fuori dalla Sicilia. Chi ha conosciuto Palermo tanto tempo fa - alla fine degli Anni Settanta, o alla metà degli Anni Ottanta, o al principio degli Anni Novanta – lo sa che questa città ha intrapreso un cammino faticoso e doloroso che l’ha portata, più di chiunque altro luogo nel nostro Paese, a cambiare. Quest’idea ha rappresentato una guida, una bussola nella stesura del mio lavoro. La rappresentazione della nascita di un bambino è stata l’occasione per onorare questo grande cambiamento di Palermo. Ho presente quali sono le contraddizioni che ancora si rimescolano nelle viscere della città e dell’isola, trasformismi, travestimenti, maschere. Ma ho capito che Palermo ha dentro di sé, ancora una volta, le energie per esprimere la sua voglia di spostarsi in avanti sotterrando il suo passato peggiore.

Questo racconto ha fatto fare anche a me qualche passo in più. Allontanandomi da un prima e spingendomi oltre. Scrivendo, sono partito dai luoghi ma anche dalle persone che ho incontrato a Palermo e che, vive o morte, ho sempre con me in ogni parte dell’Italia e del mondo dove mi capita di arrivare. Ne ho lasciato piccole tracce in questo testo su un bambino che si sono portati via. Solo piccole tracce. Ma per me molto importanti.


Note di Giovanni Sollima

Ci sono quattro piani percettivi, tanti quante le persone che hanno lavorato a questo progetto. Letizia Battaglia con le immagini, per cominciare, con le sue foto che hanno attraversato il tempo, la storia, che hanno il solco degli eventi che rappresentano e al tempo stesso - proprio per la distanza - raccontano visi sempre più immobili.

C’è il testo di Attilio Bolzoni, appassionato e lucido, e per questo poetico, e ci sarà il suo timbro di voce. C’è la mia musica. E c’è il lavoro di Cecilia Ligorio. La sua regia, in tutta questa storia, ha un ruolo importantissimo perché mette in comunicazione tre approcci anche abbastanza diversi.

Quindi sono quattro piani di percezione individuali, che a tratti scorreranno insieme, ma anche staccati uno dall’altro, o si sfioreranno e non so cos’altro.

Il Caravaggio rubato e la musica. Ho diviso la partitura in tre blocchi, la forma è vagamente quella dell’oratorio. I tre blocchi contengono al loro interno dei movimenti veri e propri, cambi di tempo, di registro, di interventi, dal coro all’orchestra, dalle percussioni (prevalentemente ad acqua) al solo del violoncello, si intrecciano, si scollano, si ritrovano. Così ho pensato per la Natività, come per il Coro, per il quale ho riscritto in parte il Gloria del compositore medievale Guillaume de Machaut, tanto lontano e, al tempo stesso, con una vocalità e un sistema intervallare che ancora oggi risiede in certa musica: quella dei Balcani (ma è solo un esempio), che l’Europa - composta, mappata o rimappata - ha totalmente dimenticato.

È un de Machaut della Messe de Notre Dame a testa in giù: ho ribaltato i ruoli vocali originari, ho allargato l’immagine sonora di alcuni dettagli, di alcune contrazioni muscolari, dello stesso dolore che sembra venir fuori, ho cercato di mostrare i nervi scoperti, i tendini, l’urlo soffocato o la parte più sommessa, quasi come una litania. È una lunga citazione. Da questa ho estratto poche note che - seppure in continua variazione - saranno presenti e forse riconoscibili per tutto il lavoro.

Ho lasciato che il testo di Bolzoni restasse racchiuso nella voce stessa del suo autore. Il coro canta altro. Prima una sola parola, ossessiva, in latino, in forma imitativa. Più tardi un testo (solo il testo) di Carlo Gesualdo da Venosa: è tratto dal VI libro di Madrigali, lo trovo sublime per come racconta una forma di assenza. 

Beltà, poi che t’assenti,

Come ne porti il cor

Porta i tormenti.

Ché tormentato cor 

può ben sentire

La doglia del morire,

E un’alma senza core

Non può sentir dolore.

L’intera partitura ha la forma della variazione. Prendo spunto da qualcosa del passato: oltre che il Gloria di de Machaut e i versi di Gesualdo, c’è un ground di tre misure, ipnotico (quasi un dolmen, sì, proprio un dolmen), attribuito al compositore cinquecentesco Thomas Preston, sul quale costruisco altro, fino a un ritmo pressante e catartico, quasi un rituale. Nel frattempo le percussioni hanno abbandonato l’acqua.

Le citazioni sono pretesti, frammenti come reperti, che segnano e scandiscono, stratificandosi, quindi sommandosi. Ogni passaggio rincorre variazioni sull’assenza. Nel terzo e ultimo blocco sono palesemente indicate come Variazioni I, II e III. La terza, in corrispondenza dell’Angelus, ha diverse opzioni sonore, tutte sovrapposte, dal liuto alla viola da gamba e alla chitarra elettrica. Quasi un’allucinazione sonora.

Quella del Caravaggio rubato non è una partitura narrativa e nemmeno una colonna sonora. Anzi, a tratti volta le spalle alla narrazione stessa, alla logica del sottolineare o dell’esaltare. Non ci sono riferimenti specifici al fatto in sé (il quadro assente) né a una Palermo ancora una volta da analizzare, da spiegare.

Ho sentito la necessità di fare evaporare il peso e lasciare tutto in astratto. Chi ascolta può interpretarlo liberamente: gli ingredienti dovrebbero esserci tutti, dal silenzio alla reattività. Per fortuna la musica può ancora farlo.


Riflessioni intorno a un Oratorio Giornalistico

Nel 1969 la mafia rubò la Natività di Caravaggio.

Non fu solo un fatto criminale. 

Fu anche un fatto simbolico.

Quel quadro ci è stato tolto.

Quella nascita ci è stata negata.

Quel bambino è andato perso.

È morto.

Quando muore un essere amato il lutto investe il tempo di cui abbiamo bisogno per ordinare, calmare, riaccordare la nostra memoria al mondo della sua assenza. Tutti i nostri sensi si organizzano per comporre un indispensabile catalogo di dettagli di chi abbiamo amato, per non dimenticarlo e per placare la pressione che il morto esercita su di noi per non essere dimenticato. Non possiamo tenere con noi tutti quei dettagli: scegliamo. Selezioniamo.

È un’ attività faticosa, ma necessaria per la nostra stessa sopravvivenza.

E poi ci rechiamo sulla tomba della persona amata che sostituisce, nel mondo, l’evidenza della sua assenza, per piangere.

Tutto diviene più difficile quando una tomba non c’è.

Quando anche l’evidenza della morte ci è sottratta, ci rimane il dubbio. In questi casi la speranza di ritrovare chi ci è venuto a mancare diventa pericolosa: non fissiamo i dettagli perché ci neghiamo all’idea che non rivedremo mai più l’essere amato. Non ci rassegniamo. E così, aspettando il ritorno, non fermiamo nella memoria i dettagli del passato e, piano piano, la memoria si allontana e la perdiamo del tutto. Il tempo passa, la speranza si affievolisce e si consuma. E, solo infine, perdiamo pure la speranza.

In queste condizioni, l’esercizio di evocare ci permette di rideterminare un senso della memoria.

I quadri muoiono se non li si può più guardare.

Guardare.

Talia Talia.

Nel Caravaggio rubato c’era una stalla e una nascita.

C’erano sono una madre e un figlio, un bambino.

Nel Caravaggio rubato il ventre di Maria era un buco nero. Il bimbo e la madre si guardavano; la Madre, reclina sul suo bambino, sottraeva a noi i suoi occhi. I suoi occhi erano tutti per il figlio. Il Bambino era steso, già deposto, nudo a terra. Il loro sguardo era un mistero di amore e terrore.


Oltre a loro c’erano altre persone intorno, i testimoni del fatto: San Lorenzo, Fra Leone, Giuseppe.

E poi, c’era un angelo, che arrivava con l’annuncio di un oltre di un ancora e di un dopo.

Il Caravaggio Rubato risponde alla necessità di metterci di fronte a un’immagine che non c’è più, guardarla di nuovo, evocarla – appunto – attraverso il significato profondo della sua assenza. La Natività di Caravaggio non è più solo un’opera d’arte, ma – attraverso la sua assenza – si fa simbolo e manifestazione di bellezza oltraggiata.

La celebre tela è dunque il punto di partenza per questa drammaturgia in cui suoni e immagini cercano il quadro rubato, perdendosi nelle vie di una Palermo che per quasi un trentennio è stata scossa ferocemente da fatti di morte e di sangue per riemergere, a fatica, tra la gente di oggi, in una città che, nonostante tutto, non ha mai smesso di interrogarsi sulla propria identità e sull’orgoglio di un futuro senza Mafia.

Dal buio alla luce.

Dal silenzio alla musica.

Dal rumore alla parola.

Dall’immagine congelata al movimento.

 

L’Opera che ne è venuta fuori è un puzzle tenuto insieme da associazioni sottili, un percorso intuitivo, una sinestesia: guardiamo un quadro attraverso la musica.

Ogni momento della drammaturgia muove da uno degli elementi della Natività. Palermo è il luogo di questa narrazione, la nostra stalla.

Ho chiesto a Giovanni Sollima, Attilio Bolzoni e Letizia Battaglia di raccontarmi la loro Palermo a partire dalla loro relazione con il quadro violato.

Ho chiesto a Igor Renzetti di guardare Palermo con gli occhi di chi scopre un mondo che non conosce, senza pregiudizi.

Attraverso di loro ho conosciuto un mondo turbato dalla memoria, ma sopravvissuto al dolore,  pieno di luce e bellezza.

La musica di Giovanni, le parole e i silenzi di Attilio, le fotografie di Letizia e i video di Igor sono gli ingredienti di questo oratorio giornalistico in cui ogni elemento, nella sua specificità, cerca di mettere in relazione le parti fra loro, dandoci l’illusione di poter riempire l’odioso vuoto lasciato sull’altare dell’Oratorio della Compagnia di San Lorenzo.

Cecilia Ligorio

 


 

 

 
 
 

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