Sulle tracce del testo: tre casi al Theater an der Wien
di Francesco Lora
Il teatro viennese presenta, nel cartellone di dicembre, tre spettacoli accomunati da possibili riflessioni sulla preparazione, sull’interpretazione e sulla manomissione del testo musicale originale, a seconda della sua consistenza, delle sue implicazioni e delle sue finalità autentiche o reinventate. L’ideale viaggio attraversa sottogeneri operistici e contesti culturali differenti, dal Lazarus di Schubert al Rinaldo di Handel alla Cenerentola di Rossini
Franz Schubert, Lazarus – VIENNA 14 dicembre 2013 – Col suo soggetto tratto dal Vangelo secondo Giovanni, Lazarus di Schubert non è un’opera né un oratorio, bensì una non meglio definibile azione spirituale dove si parla di malattia, agonia e morte. Le forme drammaturgiche e musicali, oltre che il discorso umano e teologico, rimangono in sospeso con tutto il lavoro, approntato nel 1820 ma lasciato incompleto, in stato di enigmatico frammento, come altre partiture vocali d’ampio respiro del compositore. Lo stile musicale è peraltro quello dell’Ottocento borghese vernacolare germanico, dove il dispiegamento retorico si riduce attorno a un canto cordiale e garbato, tutto d’espressione intima e dunque assai poco avvincente per chi, alla stessa altezza cronologica, porti in orecchio il Rossini che spopolava nella stessa Vienna.
Al Lazarus compete dunque più che mai lo status di opera aperta, e una curiosità diretta forse più verso l’uomo di teatro che verso l’uomo di musica. Per sei recite al Theater an der Wien (11-23 dicembre), la partitura schubertiana ha non a caso fornito l’ossatura a uno spettacolo curato in primo luogo dal regista Claus Guth, con l’aiuto dello scenografo e costumista Christian Schmidt e del drammaturgo Konrad Kuhn: dove il lavoro si interrompe, un finale di vivo contrasto è messo insieme inanellando musiche di Charles Ives (The Unanswered Question e The “Saint-Gaudens” in Boston Common, 1930-1935) e di Schubert stesso (Dreifach ist der Schritt der Zeit, Grab und Mond, Nachthelle, Der Wegweiser, nonché, in conclusione e in odore di pretesto dopo aver escluso la figura e il ruolo di Dio dall’excursus, l’apocalittico Sanctus dalla Messa in Mi bemolle maggiore). Curiosamente, in questo assemblaggio testuale dall’esile trama la poetica registica di Guth, con tutti i suoi luoghi comuni, si ambienta senza le forzature ritrovate in altri spettacoli. L’impatto emotivo è dato già dal luogo nel quale l’azione è collocata: un bianchissimo aeroporto con scalinata sul fondo, sorta di limbo dell’uomo tra la vita e la morte, punto d’incontro di arrivi e partenze nell’indifferenza reciproca, spazio nel quale la percezione temporale balza agli antipodi tra un viaggiatore e l’altro (quello la cui partenza è legata a una corsa a perdifiato e a un secondo; quello che attende la propria cercando di perdere virtuosamente tempo attraverso ore lentissime). Funziona anche il solito sdoppiamento dei personaggi tra più corpi egualmente abbigliati, e in particolare quando un identico abito finisce con l’accorpare le sorelle Martha e Maria in una stessa sorte di riflessione sul dolore e sulla morte. Sul versante musicale, tutto è pareggiato, un passo dietro il discorso teatrale e visivo, all’insegna della diligenza. Ugualmente forbiti e stilizzati risultano cioè Kurt Streit come Lazarus, Stephanie Houtzeel come Martha, Annette Dasch come Maria, Ladislav Elgr come Nathanael, Çiğdem Soyarslan come Jemina, Florian Boesch come Simon e Jan Petryka come solista nel lied Nachthelle. Il tutto è concertato da Michael Boder alla testa dei Wiener Symphoniker, senza alcuna esitazione nel brusco passaggio stilistico da uno Schubert all’altro e da Schubert a Ives, e con un picco di eroismo nell’Arnold Schönberg Chor preparato da Ludwig Ortner: in particolare i brani schubertiani aggiunti danno difatti ampio spazio al coro, e ne rivelano la straordinaria flessibilità dinamica e timbrica. Un allestimento che, inserito come nulla fosse in una stagione d’opera, turba lo spettatore e osa nuovi orizzonti, senza infierire su un testo musicale messo a punto, del resto, ad hoc.
George Friederic Handel, Rinaldo – VIENNA, 15 dicembre 2013 – Tra i meriti del Theater an der Wien vi è quello di presentare, in parallelo con la stagione di opere scenicamente allestite, una stagione di opere eseguite in forma di concerto: lì sono accolti titoli rari, o con interpreti che difficilmente si presterebbero a una lunga serie di recite, estirpando alla radice il rischio di tradimenti registici a danno del testo musicale (un rischio che sui palcoscenici mitteleuropei è concreto fino all’esasperazione). Tuttavia, è proprio in questa seconda stagione che si assiste ai maggiori e più incomprensibili arbitrii sul testo musicale in quanto tale, e poi sulle sue valenze espressive e drammaturgiche: vale a dire tagli su tagli, che smozziconano la partitura originale alterandone le strutture. Quel che è peggio, tale accanimento fallisce proprio nel suo obiettivo implicito, ossia una sensibile riduzione della durata dello spettacolo per una più agiata sopportazione da parte del pubblico meno interessato: i venti minuti guadagnati, a conti fatti e a fronte della musica esclusa a maldestri colpi di forbice, non valgono la candela risparmiata.
Colpi maldestri ve ne sono stati a iosa nel Rinaldo di Händel (Londra 1711) eseguito il 14 dicembre: recitativi tagliati ora quasi per intero ovvero per un risibile numero di battute, qui facendo sparire parti fondamentali dell’azione, là conservando con zelo parti del tutto accessorie; arie private del recitativo che le precede e che ne motiva l’enunciato, fino alla paradossale esecuzione consecutiva, al termine dell’atto II, di due arie dello stesso personaggio di Armida («Ah! crudel, il pianto mio» e «Vo’ far guerra e vincer voglio»); soprattutto, mentre ariette di personaggi secondari sono scrupolosamente mantenute al loro posto, si assiste allo scandaloso taglio di arie maggiori e intoccabili, vedi la celeberrima e furibonda sortita di Argante, «Sibilar gl’angui d’Aletto», con le sue tre trombe in organico, o la cancellazione di tre parti di tromba su quattro nel brano che idealmente – con uguale fragore ma altra statura morale – le risponde dopo due atti per bocca del protagonista, «Or la tromba in suon festante». Sia che una scelta artistica tanto più imbarazzante quanto più conscia, sia che meri motivi di budget – non ratificabili da parte di un critico musicale – abbiano portato a tale scempio, si è procurata così una grave pena a uno spettacolo altrimenti nato sotto buoni auspicii. Di interesse maiuscolo è innanzitutto la presenza di Franco Fagioli nel ruolo protagonistico: nessun controtenore può vantare oggi il suo stesso appuntito o pregnante mordente, la sua stessa disinvoltura nel virtuosismo senza rete, la sua stessa presenza in fatto di volume e coinvolgimento espressivo. Si tratta di un unicum, e da un’aria all’altra il fenomeno lascia sbalorditi. Pure, sbaglierebbe chi voglia ritrovare qui il non plus ultra esibito nel suo Arbace dell’Artaserse di Hasse o di Vinci: ugualmente abile nel registro di contralto (il caso di Handel, che scrisse per il Nicolino e per il Senesino) e in quello di soprano (il caso di Hasse e Vinci, che scrissero per il Carestini e per il Farinelli), Fagioli scocca tuttavia in questo secondo àmbito, anziché nel primo e cioè in un Rinaldo, le sue frecce più spettacolose e altrui precluse. Intorno al protagonista, qualche delusione e qualche rivelazione. Deludono tanto Karina Gauvin come Armida quanto Gianluca Buratto come Argante: entrambi mostrano segni di affanno o direttamente di insufficienza naturale e tecnica, soprattutto nell’ascesa alle note acute e nella pulizia timbrica. Guizza invece, con emissione facile e limpidezza di suono, l’Almirena di Emőke Baráth, a dispetto dell’indisposizione ufficialmente annunciata; il Goffredo di Varduhi Abrahamyan vanta accento incisivo e animosa pasta mediosopranile; funzionale è infine l’Eustazio di Xavier Sabata, diligente controtenore cui non giova il diretto accostamento all’astro Fagioli. Le ultime parole spettano all’orchestra con strumenti originali “Il pomo d’oro”, fondata l’anno scorso, e al suo direttore Riccardo Minasi, che è anche violinista di rango e filologo di qualche merito. Già deplorati i tagli inflitti alla partitura, rimane da lodare la brillantezza, la fragranza, la sollecitudine di fraseggi non mai scontati, ma anzi illuminati da un’arguzia tipicamente italiana: nelle sinfonie e nelle arie del Rinaldo, quasi tutte intonate su metri di danza ben riconoscibili, ciò balza all’orecchio e lo gratifica. Spiacciono solo alcune intemperanze maturate forse nella voglia di strafare: per esempio, le sezioni esterne della sarabanda «Cara sposa, amante cara» sono qui eseguite a parti reali (un solo strumento per ogni parte) anziché con tutta l’orchestra, in cerca di un intimismo che non ha chiaro riscontro filologico, e che trova invece a disagio tecnico gli strumentisti di sezione sbalzati al ruolo di solisti.
Gioachino Rossini, La Cenerentola – VIENNA, 16 dicembre 2013 – La piccola sala seminterrata della Kammeroper è oggi sede sussidiaria del Theater an der Wien: vi hanno luogo in particolare spettacoli musicale con fine divulgativo, pedagogico o formativo, per lo spettatore neofita come per il giovane musicista. Per undici recite (25 novembre - 21 dicembre), il cartellone ha così annunciato La Cenerentola di Rossini, in una versione tuttavia abbreviata: molti recitativi sono sostituiti da una voce narrante, tutte le parti corali sono omesse, i personaggi di Don Magnifico e Alidoro, assai alleggeriti, ricadono su un unico interprete in doppia maschera. Tra tanto lavorìo di forbici, spuntano un paio di sorprese: al posto della grande aria di Alidoro, «Là del ciel nell’arcano profondo», composta da Rossini per la ripresa romana del 1820, si ritrova il brano originale, «Vasto teatro è il mondo», oggi di rarissimo ascolto, composto da Luca Agolini per la “prima” del 1817; e prima del rondò finale di Angelina è altresì riaperto l’usuale taglio dell’aria di Clorinda, «Sventurata! Mi credea», anch’essa di Agolini e deliziosa per la sfacciata morale messa in bocca alla sorellastra: si riascolta un brano musicalmente non indimenticabile, ma la definizione del personaggio fa un gran balzo in avanti. Anche l’organico strumentale è ridotto al minimo, e rasenta l’esecuzione a parti reali: ciò rivela nondimeno all’orecchio il giardino di legni e ottoni, di sovente nascosto dietro la coltre di archi troppo fitti. Nell’esecuzione della Wiener Kammerorchester diretta da Konstantin Chudovsky, poi, la lettura è sempre esatta, lucida, scattante, e in pieno accordo con le ragioni del canto e dei cantanti. Questi ultimi sono i giovani dell’accademia di perfezionamento promossa dal Theater an der Wien, e sono tutti non solo vocalisti di pregevole materiale e tecnica, ma anche attori rifiniti, disinvolti, versatili e giocosi fino all’autoironia e ai più sottili giochi di teatro nel teatro e di straniamento dal personaggio verso il suo interprete. Protagonista è Gaia Petrone, la cui Angelina è patetica e affettuosa nel timbro di rotonda femminilità, e la cui statura di primadonna in fieri è comprovata dall’agiato registro di mezzosoprano, dall’affondo in turgori androgini, dal balenare a brillanti note acute, dallo sciorinare la coloratura minuta, dal volare da un capo all’altro della tessitura senza temere le più frastagliate cadenze. Le è accanto il tenore statunitense Andrew Owens, un poco anglicizzante nella pronuncia a dispetto dell’impersonare Don Ramiro principe di Salerno: la scrittura di altro repertorio, più spianata e lirica, gli calzerebbe meglio di quella rossiniana, mobilissima e virtuosistica; pure, la linea di canto è di rara eleganza, il registro acuto squilla impavido, il personaggio concilia l’alterigia del rango con la simpatia dell’innamorato. L’anello debole della compagnia è Ben Connor, baritono in sé di buona caratura vocale e di notevole vivacità scenica: qualcuno per lui, però, ha sottovalutato le difficoltà della parte di Dandini, cui compete non tanto l’immediatezza della buffoneria quanto – quanto anche – un dominio tecnico a prova di semicroma.
Come già detto, le ben differenti parti di Don Magnifico e Alidoro convergono su un solo interprete, Igor Bakan; la circostanza giustifica l’accentuazione caratteriale dei due personaggi, con un Don Magnifico ipercaricato, rozzo e decrepito fino alla demenza, e con un Alidoro al contrario signorile e asciutto, cui la sobria aria di Agolini conviene meglio di quella sontuosa di Rossini. Due assi di recitazione e caratterizzazione sono infine calati, come spesso accade, con la coppia delle sorellastre, e cioè con la pungente e maliziosa Clorinda di Gan-ya Ben-gur Akselrod e con la flemmatica e querula Tisbe di Natalia Kawalek-Plewniak. Molti meriti hanno, senza dubbio, anche la regista Jasmin Solfaghari, lo scenografo Mark Gläser e la costumista Petra Reinhardt: il loro spettacolo istruisce i cantanti senza impacciarli, si sovrappone alla musica senza tradirla, realizza il testo verbale con divertita brillantezza e qualche innocua licenza (per esempio quando, nel tripudio finale della fiaba, Angelina chiude il rondò, ritorna al trono e inorridisce: al posto di Don Ramiro c’è ora un impettito principe-ranocchio).