La stagione della vendemmia, le stagioni della vita
di Andrea R. G. Pedrotti
Riuscita inaugurazione per la stagione del teatro Filarmonico di Verona con un Don Pasquale affidato alla regia efficace e intelligente di Antonio Albanese e a un cast in cui hanno primeggiato la Norina incisiva e risoluta di Irina Lungu e il Malatesta ironico e raffinato di Mario Cassi. Più interlocutoria e meno sfumata la direzione di Omer meir Wellber.
leggi la recensione della seconda compagnia
VERONA, 15 dicembre 2013 - La direzione del teatro Filarmonico di Verona, in occasione dell'inaugurazione della stagione d'opera e balletto, ha deciso di regalarci un Don Pasquale nuovo, frizzante e ricco di spunti di riflessione.
Piacevole sorpresa è stata la regia di Antonio Albanese, il quale, più che essere prestato alla lirica, ha saputo donarsi interamente al libretto e alla musica di Donizetti. L'opera non è una semplice rappresentazione teatrale, ma un'esaltazione del sentimento, che, attraverso una finzione assoluta, viene tradotto e consegnato allo spettatore; questo è stato compreso appieno da Albanese, il quale, senza alcun tradimento della scrittura originale, ha trasformato Pasquale da Corneto da semplice possidente a produttore vitivinicolo; il Dottor Malatesta, pur restando faceto e intraprendente, non è più il medico di fiducia, ma un amministratore delle finanze dell'intera tenuta, Norina non è più necessariamente una giovane vedova (caratteristica dovuta alle esigenze del tempo), ma una semplice dipendente dalle umili mansioni e Ernesto diviene, sì, un giovane ereditiere viziato e di buona famiglia, ma più educato e meno strafottente del solito.
La scena si apre con una stilizzata e immaginaria cantina, fatta di bottiglie vuote, quasi a indicare il termine di un ciclo generazionale; a sottolineare la differenza fra il mondo dell'anziano Don Pasquale e quello del rampante Ernesto è il carattere dei costumi: grigi e polverosi quelli del primo, colorati e vivaci quelli del secondo. Anche i servitori personali seguono questa dicotomia dando all'intero contesto il vero senso dell'essere interiore e dei tempi della vita umana.
Non esiste un'indicazione precisa dei luoghi ove si svolga la vicenda (il dottore parla qui di Verona, ma potrebbe essere adattato a qualunque città Italiana) e Norina, nel corso della cavatina e del duetto, non appare più nella sua abitazione romana, ma intenta a raccoglier grappoli d'uva per l'imminente vendemmia, durante la quale, in un momento di pausa (e questo rievoca l'Adina nell'Elisir d'amore), si diletta nella lettura e nell'esaltazione delle sue doti di ammaliatrice. Il successivo duo con Malatesta è piacevolissimo, nel solco della miglior tradizione.
Il finale del secondo atto è forse la miglior idea di Albanese. L'abitazione di Don Pasquale è, così come lui e tutto ciò che lo circonda, priva di qualsiasi vitalità: un appartamento popolato da fantasmi. Questo soltanto fino al dirompente giungere della giovane e fresca “Sofronia”, la quale, nell'accettare la proposta di nozze crea un secondo scompiglio nel cuore dell'anziano possidente, che pare tirar fuori il “servizio buono”, sciogliendo una grande rete, posta sul soffitto, contenente i mobili migliori e ormai dimenticati, dalle due porte laterali vengono portati poltrone, quadri e specchi, dando il senso della rinascita dell'abitazione e non solo del proprietario. Questo accentua il dramma umano e il profondo senso di melanconia che va crescendo, quando Norina, una volta firmato il fittizio contratto nuziale, rifiuta e schernisce sdegnosamente l'amore offertole e principia nel costante, continuo e crescente maltrattamento dell'uomo e della sua senilità.
E' un vero peccato che la scena dello schiaffo, forse una delle pagine più angoscianti dell'intera opera, venga sprecata da Simone Alaimo, complice una concertazione non all'altezza, con una recitazione non adeguata alla bella idea registica di far riflettere Don Pasquale in un opaco specchio che gli desse prova della sua miserabile condizione. Un'interpretazione più adeguata avrebbe sottolineato maggiormente la distanza dall'allegro, solo nella musica, waltzer “Va' a letto, bel nonno!”.
Per una volta abbiamo avuto modo di apprezzare, e questa è una vera rarità, l'idea di far irrompere il coro in platea: in quest'occasione è stata una trovata che sposava appieno quanto recitato nel libretto, infatti “Che interminabile andirivieni” è una pagina che molto sa di intermezzo, un commento a quanto visto sino a quel momento che, quindi, non fa parte della vicenda, ma si limita a osservarla, così come il pubblico, certo partecipe, ma impotente.
Il finale ha come scenario non i soliti giardini di una villa, ma, nuovamente, i terreni agricoli, mutati da un'esplosione di colori e fiori. Lo stesso Ernesto si travestirà efficacemente da albero, per nascondersi all'arrivo del Dottore e Don Pasquale.
Protagonista della bellissima e intelligente regia di Albanese abbiamo avuto il piacere di ascoltare un cast vocale con due punte di assoluta eccellenza come Mario Cassi e Irina Lungu: il baritono toscano padroneggia al meglio l'intero ruolo, con piglio e sicurezza sia vocali sia scenici. Una bella conferma per un cantante nella piena maturazione, che speriamo di apprezzare presto in molti debutti. Il soprano russo, finalmente, interpreta una Norina di assoluta certezza, piglio e personalità, non cinguettante, ma risoluta, pur mantenendo la freschezza e la disinvoltura scenica, richieste dal ruolo.
Bellissime le cadenze del rondò finale.
Simone Alaimo, ormai, è un cantante a fine carriera e risolve il ruolo correttamente, scevro dagli eccessi passati. Dispiace che qualche difetto vocale, ma, soprattutto, di scarsa interpretazione abbia sciupato tutte le sfaccettature del personaggio, per di più con una regia così densa di significati: manca completamente la malinconia e lo struggimento tipici del ruolo. Peccato.
Pessima la prova dell'Ernesto di Francesco Demuro, attore men che mediocre, difetta completamente di proiezione e il fraseggio è piatto, l'intonazione approssimativa, sempre prossima alla stecca e i fiati non migliorano certo la situazione.
La concertazione, affidata alla bacchetta di Omer Meir Welber è, a tratti, troppo pesante e non coglie appieno le varie raffinatezze della partitura, ma nel complesso, grazie alla bellezza dell'opera, l'esito ne risente in maniera relativa.
Il cast è completato dal notaro di Antonio Feltracco.
Le scene, scarne ma efficaci, sono curate da Leila Fteita, i costumi da Elisabetta Gabbioneta.
Al termine convinti applausi per tutti gli interpreti.
Dispiace che il pomeriggio sia stato macchiato da una protesta delle maestranze, che ha causato il ritardo di ben un'ora rispetto all'orario d'inizio. Senza voler entrare nel merito, sarebbe stato per tutti preferibile che tale sciopero fosse stato spiegato da un qualche comunicato, anziché lasciare l'intera sala all'oscuro delle effettive motivazioni.
foto Sudio Ennevi