L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Raffaella Lupinacci, Marco Filippo Romano, Vittorio Prato, Luca Tittoto, Alessandro Luciano

Parlare la stessa lingua

 di Roberta Pedrotti

Alla seconda recita del Barbiere di Siviglia permangono le perplessità su direzione e regia. Tuttavia, nonostante le difficoltà oggettive, la seconda compagnia ha il vantaggio d'esser composta interamente da madrelingua e trova, nel complesso, un maggior affiatamento e una maggior incisività. Così, anche al di là delle virtù individuali nei due cast, il gioco di squadra, alla seconda recita, ha fatto la differenza.

BOLOGNA, 6 maggio 2016 - Cambia, in gran parte, il cast, restano i problemi, si profilano diverse soluzioni. Così va in scena la seconda prima del Barbiere del bicentenario al Comunale di Bologna, debutto di una compagnia alternativa ricca di elementi di interesse non meno di quella ascoltata la sera del 5 maggio [leggi la recensione].

Come per i colleghi, pesano alla base una concertazione e una messa in scena irrisolte: Carlo Tenan ribadisce la cura minuziosa, di per sé encomiabile, prodigata sulle arcate e su alcun dettagli strumentali, ma anche il rapporto problematico con il palcoscenico, la difficoltà a coordinare tutti gli elementi, con sfasature sull'orlo di un abisso caotico, come quello in cui s'impantana la stretta del Quartetto del secondo atto, che costringe a un tratto le voci a tacere per evitar danni peggiori. Inevitabile, pertanto, che i cantanti appaiano guardinghi, tesi, in difficoltà nel dare il meglio di sé. Non arriva a convincere nemmeno la regia di Francesco Micheli, che pare anch'essa parcellizzarsi in dettagli e citazioni privi di una reale coesione teatrale. Che il Conte appaia in scena con una mise alla Liberace e il coro brandisca candelabri resta una citazione iconografica di non immediata comprensione e drammaturgicamente ininfluente, sostanzialmente irrelata rispetto agli altri riferimenti, alle allusioni, alle gag, alle immagini, alle interpretazioni inusuali (“Dolce nodo” appare come un momento di tensione e delusione appianato da un Figaro che non sembra voler mettere nessuna fretta agli amanti) che si inanellano sulla superficie dello spettacolo. Quel che soprattutto li tiene uniti è il maggiore affiatamento di una compagnia che può contare anche sul vantaggio non indifferente di essere completamente madrelingua: non una regola assoluta, ma in questo caso ben confermata in particolare dal Figaro di Vittorio Prato.

Voce brillante da baritono belcantista e non da Rigoletto in vacanza a Siviglia come s'usava un tempo, Prato non è solo musicalmente agile e preciso, ma ha soprattutto dalla sua il gusto franco della parola, della commedia giocata nel suono e nei sensi della lingua italiana, oltre a una presenza scenica fresca, disinvolta e scattante.

Al debutto come Rosina, Raffaella Lupinacci porta in dote la maturazione di una franca voce mezzosopranile, di bella pasta ben calibrata per questo repertorio, salda in acuto e sempre più presente e brunita nel grave. Nonostante le difficoltà musicali e le esigenze sceniche, esce a testa alta dal cimento confermandosi anche attrice convincente. Bravo, come sempre, anche Marco Filippo Romano, artista intelligente cui la tessitura di Bartolo calza comodamente, benché più volte nei pezzi d'insieme sia messo a rischio dalla bacchetta.

Non certo aiutato dai tempi erratici e dagli attacchi ondivaghi di Tenan è pure l'Almaviva di Alessandro Luciano, che gioca la carta del fraseggio più che dei decibel (trattenuti da un'evidente e ardua navigazione a vista rispetto al podio), ma soprattutto regala un'eccellente prova d'interprete caratterizzando assai ogni volto del conte (Liberace, Sgt. Pepper, John Lennon…) e mantenendo una continuità pur nell'assurdità. Potremo dubitare della logica di un Don Bartolo che si affida a un hippy tutto “Peace&Love e… Maria”, non potremo negare che Luciano, con la sua stralunata imitazione di Verdone (là dove Barbera ricorreva alla tradizione di nasalità e sigmatismo), abbia realizzato la scena nel miglior modo possibile. Anche per questo, contando su un cast non privo di talenti e personalità, spiace che il podio ne abbia tarpato sovente le ali, che la regia non li abbia inseriti in un gioco teatrale ben altrimenti avvincente.

Da entrambe le compagnie si sarebbe potuto trarre ben altro partito, senza, almeno, l'apprensione di attacchi da acchiappare fortunosamente (alla prima capita a Bordogna di aggiustare “Stringi...Bravissimo”, alla seconda la stessa cosa alla Lupinacci con “Ah! Lindoro, mio tesoro”); tuttavia, l'affiatamento e il linguaggio comune di questa compagnia coinvolgono anche il Basilio di Luca Tittoto in una performance più convincente rispetto alla sera del debutto, con una maggior eleganza d'emissione quale abbiamo sempre riconosciuto al basso veneto. Perfino peggiorata sembra invece l'infelice Berta di Laura Cherici. A Gabriele Ribis come Fiorello si affiancava, stavolta, l'Ufficiale di Sandro Pucci.

Il pubblico, in gran parte composto da giovani che hanno risposto alle convenientissime promozioni per studenti, applaude con entusiasmo. Diciamolo, almeno l'impegno degli interpreti nel dare il massimo nonostante tutto lo merita in pieno, e, se è la bacchetta a far inciampare, si potrà ben concedere qualche attenuante.

foto Rocco Casaluci


 

 

 
 
 

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