Bach ed il sacro
All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia torna la Messa in si di Johann Sebastian Bach: le maestranze locali sono dirette da Renhard Goebel; solisti sono Damiana Mizzi (soprano), Catriona Morison (contralto), Benjamin Bruns (tenore) e Christian Immler (basso).
ROMA, 14 novembre 2024 – Dopo un decennio la Messa in si minore BWV 232 di Johann Sebastian Bach torna ad essere eseguita all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, non dall’atteso Semyon Bychkov ma da una star del panorama barocco internazionale, Reinhard Goebel, fondatore dell’ensemble Musica Antiqua Köln e noto per l’attenzione al recupero di partiture rare come pure di esecuzioni ‘filologiche’.
Il Bach di Goebel, infatti, è in linea con il suo gusto musicale. Si sarebbe tentati, davanti ad un monumento come la Messa in si, di ampliare l’organico, di monumentalizzare una partitura che si presta, del resto, assai bene a questo scopo (si pensi alla storica incisione di Karajan). Invece, Goebel rispetta l’organico orchestrale originale, mantenendo un volume sonoro contenuto, mai sforzando l’orchestra in una vertiginosa verticalizzazione, ma lasciando solo a pochi, ‘teatrali’ momenti della partitura (come, ad esempio, l’ Et resurrexit) una reale potenza volumetrica del suono. Rispetto alla Messa in si di Pappano, l’ultima eseguita in Accademia nel 2014, questa di Goebel potrebbe essere definita maggiormente intimistica. Sicuramente, il direttore mira alla precisione ed alla spaginatura della complessa architettura bachiana, esaltando contrappunti, effetti chiaroscurali, sacre geometrie; ma l’intento primario di Goebel è quello di armonizzare coro e orchestra in una dimensione sacra fatta non di mera grandeur, ma di un equilibrio, nel quale, con ogni probabilità, colloca il nucleo più intimo della sacralità bachiana. Si può dire che c’è, certo, riuscito: Goebel è apprezzabile nel leggere una partitura complessa, evitando accuratamente il rischio maggiore, la sua banalizzazione, la resa piatta del cristallino discorso musicale, dell’architettura complessiva. Protagonista indiscusso è, naturalmente, il coro dell’Accademia, che si distingue ancora per uniformità, precisione, duttilità e colore, scolpendo la sua parte con impressionante vividezza, in sinergia ottimale con l’orchestra (i cui singoli membri danno ottima prova di sé nelle arie con strumenti obbligati). Del resto, il coro non si è apprezzato solo per la precisione contrappuntistica nei vari passaggi (come nelle sequenze del Kyrie I e II), ma anche per i colori che riesce a generare: come esempio potrebbe citarsi lo squillo di gioia del Gloria in excelsis Deo, ma esempi mirabili sono i tre cori del Credo, di impressionante potenza espressiva, l’Et incarnatus est, con la sua atmosfera sospesa, angosciata, il Crucifixus, quintessenza del luttuoso dolore per la morte di Cristo e, infine, dell’esplosione di gioia dell’Et resurrexit, di potenza luminosa. Il cast delle voci concorre all’ottima riuscita della serata. Damiana Mizzi, dotata di una voce squillante, ma poco potente, è adatta al ruolo del soprano, che compare sempre assieme alle altre voci, nel pacato, forse troppo intimo Christe eleison assieme al contralto; come pure nel Domine Deus, con il tenore. Catriona Morison sostiene la parte del contralto, forte di una voce pastosa, con emissione docilmente vibrata e timbro lievemente brunito; forse, un maggior volume avrebbe aiutato nelle sue arie soliste, Qui sedes ad dexteram Patris e Agnus Dei qui tollis peccata mundi, che si distinguono, però, per ricercatezza di fraseggio. La parte del tenore è interpretata da Benjamin Bruns, decisamente la voce più potente del cast, dallo squillo vivace, che scolpisce ogni frase lasciando un po’ da parte, in alcuni momenti, talune soffuse sfumature (lo si è ascoltato nel Benedictus). Delle due arie a lui affidate, Christian Immler, il basso, si fa apprezzare maggiormente nella seconda, Et in Spiritum Sanctum, dove il suo timbro ferruginoso ed il vibrato stretto incontrano l’ethos del pezzo, ingentilito dal timbro pastoso degli oboi d’amore – per quanto riguarda la prima, Quoniam tu solus sanctus, forse Immler avrebbe potuto fraseggiare con più colore, considerando la singolare sonorità bronzea (rubo la bella definizione di Paolo Gallarati, dal programma di sala).
Alla fine del Dona nobis pacem il pubblico applaude calorosamente, attestando l’ottima riuscita della Messa in si di Bach, uno di quei capolavori assoluti, di ogni tempo, in grado di superare le barriere religiose (Bach protestante, la Messa secondo il rito cattolico): un messaggio sacro che può essere anche solo goduto, intensamente, sul piano estetico.
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