Scatole cinesi
di Andrea R. G. Pedrotti
Nonostante le buone intenzioni del direttore Jader Bignamini, la Turandot d'apertura della stagione del Teatro Filarmonico di Verona testimonia un periodo di crisi anche artistica per l'istituzione scaligera. Perplessità sui complessi stabili come sul cast e la messa in scena.
VERONA, 23 dicembre 2016 - A pochi giorni dal compleanno di Giacomo Puccini, al Teatro Filarmonico di Verona va in scena l'ultima recita della produzione inaugurale della stagione 2016\2017, Turandot.
Negli ultimi anni la Fondazione Arena aveva saputo offrire al pubblico produzioni di una qualità tale da far pensare che l'istituzione veronese si potesse definitivamente affrancare dal pregiudizio che le affibbiava l'etichetta turistica di mero intrattenimento nelle fresche sere estive dei numerosi villeggianti presenti sulle sponde del lago di Garda.
Le ultime inaugurazioni erano state un crescendo qualitativo, fino alla migliore, La forza del destino del 13 dicembre 2015 [leggi la recensione]. Non solo inaugurazioni, ma, durante la gestione artistica di Paolo Gavazzeni (al quale, con il senno di poi, andrebbe attribuito qualche merito in più), una lunga serie di spettacoli di danza, opera e musica sinfonica che non si possono che ricordare, ormai, con un pizzico di nostalgia.
Dispiace constatare come la qualità degli spettacoli veronesi abbia avuto una parabola discendente ben più rimarchevole, anche paragonata ad altre realtà liriche italiane, come Torino, Bologna o Firenze, le quali hanno mantenuto una linea di programmazione, magari meno decisa, se paragonata agli anni scorsi, ma senza evidenti cali di rendimento.
Per chi, come il sottoscritto, ha avuto tante soddisfazioni artistiche in questo teatro è triste osservare come i fasti del passato più prossimo siano ormai un ricordo sbiadito.
La regia della Turandot andata in scena venerdì ha condensato tutte le caratteristiche meno felici degli spettacoli di tradizione e delle produzioni più innovative. Talune scelte del regista, Filippo Tonon, risultano didascaliche all'eccesso, tuttavia, di contro, sono riscontrabili una serie di errori (quindi esenti dalla definizione di "interpretazione") evidenti nell'analisi del testo, specialmente nel secondo e nel terzo atto: per esempio, il voler esplicitare in un leggero drappo blu scintillante il "tragico cielo" e le espressioni "solleva quel velo" e "tu stringi il mio freddo velo" non solo vanifica l'evidente metafora espressa dalla Principessa (velo come corpo fisico) ma rende goffa e incoerente tutta la scena dello scoglimento amoroso. L'idea complessiva pare quella di riprodurre una serie di scatole cinesi, dei moduli mobili che creino gli ambienti su uno sfondo perennemente scuro e opprimente.
Il primo atto è una serie interminabile di espedienti visivi e teatrali massimamente kitsch, ma non secondo le forme comunicative tipiche, per esempio, di un Franco Zeffirelli (che a suo modo funziona), ma attraverso l'inserimento di bizzarre cascate di petali o luccichini, pose plastiche (e notevolmente caricaturali) di un Pu-Tin-Pao, che pareva una via di mezzo fra Sandokan e un Ninja. I costumi di Cristina Aceti riportano alla mente le sequenze di una pellicola che non passò sicuramente alla storia del cinema per la sua bellezza, come Waterworld. Le guardie del palazzo imperiale cinese, forse un richiamo a demoni nipponici, hanno dei lunghi capelli stopposi e dei bizzarri canidi di ispirazione egizia sul capo.
Peggiorano le cose nel secondo atto, con la reggia di Pekino ornata di placche ferrose (forse i coperchi delle scatole cinesi) e tonalità cupe che, nell'affollarsi di dettagli superflui su un impianto teoricamente minimale, non esprimono il carattere ieratico e fiabesco delle vicende. La Principessa di gelo è anonima, staccata dalla sua corte e si distingue a stento dai popolani, assisi sulle scale del proscenio con indosso dei costumi pressoché identici a quelli della versione areniana di Zeffirelli.
Calaf indossa una bizzarra stola di pelo e dei pantaloni aderenti che lasciano intravedere delle vistose ginocchiere. La scena è ulteriormente appesantita da una serie di comparse, principalmente femminili abbigliate di lustrini azzurri e dorati, impegnate in movenze che paiono quelle di un cefalopode più che di improbabili ninfe o damigelle di corte. Questo dovrebbe far riflettere sull'inutilità della chiusura di un corpo di ballo che avrebbe garantito maggior precisione ed eleganza nei movimenti, anche grazie alla presenza di Renato Zanella, già direttore del complesso artistico areniano e ora impegnato a Vienna per la coreografia del Concerto di Capodanno che verrà trasmesso in mondovisione.
Il terzo atto è forse quello che ha presentato meno elementi scenici: i moduli cubici che compongono la scenografia vengono decorati da puntini luminosi, prima dell'esecuzione di “Nessun dorma”. Solo dal momento e dalla conoscenza della trama era pienamente comprensibile che cosa significassero quei led, che ha un primo sguardo parevano testi scritti in Braille.
Il successivo tentativo di seduzione ai danni di Calaf è perpetrato dalle comparse femminili che avevano animato il secondo atto, le quali agitano rumorosi mantelli, sistematicamente fuori sincrono fra loro.
Poca partecipazione e interazione fra i protagonisti, anche nel duetto fra Calaf e Turandot e nel finale dell'opera ultimati da Franco Alfano.
Male tutto il cast vocale: Tiziana Caruso (Turandot) avrebbe avuto le caratteristiche vocali di un soprano lirico, ma non lirico drammatico, perciò è perennemente costretta a forzare l'emissione, con conseguente deterioramento dello strumento vocale. Ben al di sotto della sufficienza nella scena degli enigmi, è costretta a raggiungere il proscenio per osservare meglio il direttore, con conseguenti forzature nell'interazione con gli altri personaggi e tradimento della natura solenne del ruolo. Migliora leggermente nel finale, quando la scrittura musicale, quella di Alfano, favorisce una linea più spinta e meno legata rispetto alle esigenze pucciniane.
Walter Fraccaro evidenzia, di contro, doti vocali che lo renderebbero particolarmente adatto a questi ruoli, ma le mende musicali sono numerose, a partire dal più elementare solfeggio. Il libretto viene perennemente ignorato e di rado il tenore veneziano, che apprezzammo lo scorso anno nel ben più impervio ruolo di Don Alvaro, concede la pronuncia delle consonanti. I problemi si palesano anche in “Nessun dorma”, ma il si naturale gira bene e, dopo applausi sicuramente non fragorosi, decide di concedere ai presenti un bis.
Non all'altezza anche la Liù di Donata D'Annunzio Lombardi, in perenne difficoltà nella gestione dei fiati e di conseguenza nel sostegno nel suono e del legato, nonché anodina nel fraseggio.
Fra le tre maschere, è pessimo il Ping di Federico Longhi, che torna a palesare i numerosi problemi tecnici precedenti alla discreta prova nel Rigoletto di marzo [leggi la recensione]. La voce corre poco, l'emissione è forzata, spesso il baritono scade nel parlato, la gestione dei fiati è gravemente insufficiente e il fraseggio privo di espressione. Male anche Massimiliano Chiarolla (Pong) e Luca Casalin (Pang), i quali pare non stiano nemmeno cantando in voce. Problema che si assomma all'insipienza scenica e alla scarsa coordinazione musicale di tutte e tre le maschere.
Non convince nemmeno Carlo Cigni, Timur dall'emissione poco pulita e dall'intonazione precaria.
Migliore del cast è l'imperatore Altoum di Murat Can Güvem. Tonante Mandarino era Nicolò Ceriani e il Principe di Persia era Salvatore Schiano Di Cola.
Molto al di sotto dei degli anni passati anche il coro della Fondazione Arena, diretto da Vito Lombardi, sovente impreciso, poco coeso e privo di sfumature. Sinceramente non pare nemmeno di ascoltare gli stessi coristi che avevamo ammirato sotto l'eccellente gestione di Armando Tasso.
Ingiudicabile il direttore d'orchestra, Jader Bignamini, il quale evidenzia alcune buone intenzioni, come una bella linea musicale durante “Tu che di gel sei cinta” e qualche bella scelta di colori da parte degli archi, ma, per il resto, l'orchestra appare completamente disunita (altro indizio della necessità per la Fondazione di un direttore musicale), senza che vi sia a possibilità di aumentare i volumi senza scadere nella confusione e in una perdita di qualità strumentale. Fra i professori si segnalano negativamente ottoni e percussioni.
L'allestimento era quello della Slovene National Opera and Ballet di Maribor, con scene e luci (spesso azzurrognole o di un rosso sbiadito) curate dallo stesso regista, Filippo Tonon.
Da segnalare la continua maleducazione del pubblico in sala, intento del corso di tutta l'opera a parlottare, commentare lo spettacolo (non certo sottovoce), scattare foto con luminosi telefoni cellulari o a scartare rumorose caramelle.
Prima dell'inizio dell'opera è stato letto il comunicato sindacale comune a quello delle altre Fondazioni Liriche.
Visto l'esito artistico conclusivo, viene da pensare, ma questa è e rimane un'opinione personale, a quale utilità possa aver avuto la chiusura di un corpo di ballo diretto da una figura di assoluto spicco a livello mondiale e la mancanza di fiducia nei confronti dell'operato di Paolo Gavazzeni. Paradossale, ma resta sempre un'opinione personale, come la nomina di un nuovo sovrintendente non abbia ancora condotto a quella di un nuovo direttore artistico, figura al momento assente che, tuttavia, mantiene un vice, ossia Gianpiero Sobrino, presente in Arena da molti anni. Forse sarebbe stato almeno opportuno cercare di trattenere Zanella.
foto Ennevi