Il ritorno di Semiramide
di Stefano Ceccarelli
Dopo più di un secolo (dal 1887, esattamente) torna a calcare il palcoscenico del Covent Garden l’ultimo capolavoro di Gioachino Rossini interamente pensato per un pubblico italiano: la Semiramide, opera dal respiro monumentale e dalla struttura autenticamente cristallina, una coproduzione con il teatro dell’opera di Monaco di Baviera. Sir Antonio Pappano dirige incredibilmente, con verve e pulizia sonora, una partitura di proporzioni mastodontiche (si pensi all’interminabile I atto) e sorregge magnificamente tutte le voci. Il cast è semplicemente stellare e brillano la DiDonato nel ruolo del titolo, come pure la Barcellona in Arsace, Brownlee in Idreno e Pertusi in Assur, per sorvolare sugli altri. Peccato per una regia poco ‘monumentale’, poco adeguata alla partitura, tal è quella di David Alden, che peraltro si muove in un terreno sfumato che sfocia a tratti nel comico.
leggi la recensione del debutto dell'allestimento a Monaco di Baviera
LONDRA, 8 dicembre 2017 – Il Covent Garden, nella sua atmosfera squisitamente londinese, è gremito per assistere a una delle opere più monumentali di Rossini: Semiramide, con cui il compositore salutò l’Italia, in una sorta di summa monumentale, appunto, ma anche volutamente classica, composta, geometricamente perfetta, della sua arte italica. Sul podio sale l’inossidabile Antonio Pappano, che Semiramide ha già diretto a Parigi nel 1990. L’italo-inglese, che si divide proprio fra Italia e Inghilterra nel suo ruolo di direttore stabile dell’Accademia di Santa Cecilia e del Covent Garden, ritorna su una partitura di amplissimo respiro, che richiede attenzione e cura, specialmente per un pubblico moderno totalmente digiuno delle intenzioni estetiche cui Rossini guardava e dei tempi dilatati del monumentale teatro dell’epoca. Certo, Rossini compensa questa struttura quasi infinita con la bellezza sublime della sua musica.
L’orchestra del Covent Garden è centrata, palesando un suono pastoso e mai sfibrato; il fatto di essere opportunamente ridotta a un ensemble adatto a non sovrastare le voci (la scelta è anche filologica, se si vuole, visto che i numeri erano grossomodo quelli all’epoca di Rossini), rende il suono quasi leggero, mai pesante, sempre avvolgente le voci. Pappano mostra la cifra dell’agogica scelta fin dall’ampia ouverture: tempi teatrali all’uopo energici, ottimo uso delle arcate volumetriche, nettezza dei passaggi, senza sacrificare la turgidezza delle volatine degli strumenti più acuti; il direttore mostra, inoltre, sensibilità timbrica e ritmica nel crescendo così tipico della musica di Rossini. Insomma, l’ouverture esce con energia e pulizia invidiabile (indimenticabili alcune riprese, passaggi, respiri e il monumentale crescendo, appunto). La direzione del resto della partitura è egualmente tesa a far sprigionare l’energia drammatica insita nelle complesse maglie di una partitura che va abbracciata per quella che è, senza forzarla in alcun senso, senza slargarla o tirarla, ma riuscendo a mantenere un opportuno equilibrio fra l’intensità drammatica dei passaggi e la tersa bellezza delle melodie. Di questa direzione, al contempo precisa e teatralmente emozionale, potrei dare più di un esempio: vorrei ricordare, in particolare, il secondo duetto fra Arsace e Semiramide, quello in cui la babilonese apprende la fatale identità di Arsace (in realtà suo figlio Ninia, creduto morto) e come Pappano scolpisca prima ancora nell’agogica e nel colore orchestrale il canto commovente dei due, così divisi da opposti sentimenti. Ma anche i vari passaggi orchestrali sono apprezzabilissimi: il colore del preludio alla cavatina di Semiramide, o quelli dell’aria di Assur ne sono altrettanti ottimi esempi. L’unico neo – a livello ‘musicale’ – di questa produzione sono taluni tagli alquanto invasivi praticati da Pappano: posso capire il lieve taglio del preludio alla cavatina di Semiramide, ma trovo veramente inconcepibile quello dell’intera cabaletta della prima aria di Idreno, calando il sipario – per così dire – sul tempo di mezzo, che rimane sospeso e musicalmente non concluso. Sono comprensibilissimi i problemi di orario che crea un’opera della portata di Semiramide, ma trovo musicalmente incomprensibile tagliare un numero musicale in questa maniera (e l’edizione critica usata è ora quella di Ph. Gossett e A. Zedda, che non lascia adito a alcun dubbio esegetico). Per il resto, dagli ampli concertati alle singole arie, Pappano non fa che dimostrarci che eccellente musicista sia e che straordinaria sensibilità abbia anche per un repertorio come quello rossiniano, non sempre da tutti compreso. Per fare un esempio. Che l’estetica rossiniana sia per molti versi lontana dalla nostra è perfettamente avvertibile dal fatto che non pochi scorgono in Semiramide elementi ‘comici’ o non tragici, il che è semplicemente assurdo: l’elemento di ‘lontananza’ che ci separa dall’estetica di Semiramide e taluni elementi stranianti non erano certo percepiti da Rossini come ‘buffi’, adatti a quel genere. (Non che il libretto di Semiramide, peraltro, sia perfetto: si guardi il finale!). L’elemento di tersa bellezza della musica dell’opera, però, va preso a cifra estetica che ha sicuramente punti in comune con un linguaggio che Rossini impiega anche nel genere buffo, ma che nel contesto tragico non lo è: per lo stesso motivo per cui il lieto fine dell’Alcesti di Euripide non inficia il suo essere una tragedia. In tal senso, talune iper-letture della regia ammiccanti al comico sono, a mio avviso, forzature interpretative.
Prima di passare agli interpreti vorrei soffermarmi su una regia che non ho complessivamente apprezzato. David Alden ha attualizzato la trama di Semiramide calandola in una dittatura orientale di fede islamica; il che, di per sé, pur non avendo nulla di originale (la medesima idea s’è visto già, per riprendere un altro lavoro rossiniano, nella regia di Vick in un Mosè in Egitto del 2011 al ROF), non sarebbe da condannare a priori. Altri aspetti non mi hanno convinto. Poco consono a una partitura e a un lavoro come Semiramide mi pare il calcare su taluni slittamenti comici come: l’uso di attendenti che parodiano, quasi, il carattere altamente cerimonioso dei riti islamici (come l’inchinarsi); le movenze esagerate del personaggio di Idreno, calcato in più punti come comico; o una Azema raffigurata come una sorta di vergine sacerdotessa in funzione di oracolo, che si muove impacciata in un costume che le prolunga le braccia in drappi, come se fosse una divinità alata assira. In assenza di note di regia, non posso sapere se l’intento di Alden fosse effettivamente stemperante verso la sfera del comico, oppure se, più semplicemente, il regista volesse esagerare taluni tratti stranianti: il risultato, comunque, sono state le risa del pubblico. E francamente non trovo cosa ci sia da ridere in Semiramide. Un'altra pecca registica – a mio avviso – la si trova nella gestione delle masse, nei tableaux, che non sono mai pieni, in un’opera che ha una forte alternanza di privato e pubblico, dove in quest’ultimo ci aspetteremmo fasto e popolo (come chiaramente indicato nel libretto): la grande scena d’apertura, la scelta del nuovo re d’Assiria, risulta in un certo senso meno ‘piena’ di quanto potrebbe, quando l’estremo sfarzo dovrebbe esserne la precipua caratteristica. Ma ancor più grave m’è parsa la scelta di lasciare il coro retroscenico nell’acclamazione finale di Arsace/Ninia, privando la scena della necessaria monumentalità. Altri elementi dell’idea registica sono meglio ponderati, invece: la scena del fantasma di Nino, dove si ripropone la cena borgiana del suo avvelenamento (un ricordo della sola Semiramide?); la ricordata rappresentazione di Azema come una donna/dea oggetto. Insomma: qualche esagerazione in meno non sarebbe dispiaciuta (la quasi violenza di Assur ai danni di Semiramide nel suo boudoir, per esempio), come pure qualche attenzione maggiore alle scene di massa. Scene, quelle di Paul Steinberg, che hanno gran potenziale: l’uso a mo’ di decorazioni degli arabeschi del palazzo marocchino di El Glaoui ci dispongono nella giusta dimensione orientaleggiante; e le foto di famiglia appese ai muri, come pure l’ingombrante statua di Nino, suggeriscono uno slittamento repentino al presente, alle instabilità politiche tipicamente orientali. I costumi di Buki Shiff, che alternano classicità orientale alla modernità, sono semplicemente stupendi: quello regale di Semiramide, poi, con una luccicante corona, o quello di Idreno, spiccano decisamente.
Il vero punto di forza di questa produzione, assieme all’eccellente lavoro di direzione di Pappano, è il cast vocale: non si potrebbe sperare in meglio, per questo repertorio. Joyce DiDonato è semplicemente smagliante nel ruolo del titolo: ha un’incredibile potenza vocale, coniugata alla chiarezza, alla sgranatura delle fioriture rossiniane, persino di quelle più ardite. Per non parlare poi del perfetto controllo dei mezzi tecnici e per il suo talento di attrice persino con la voce. Vorrei citare, in tal senso, due suoi momenti veramente incredibili della serata: la cavatina «Bel raggio lusinghier», dove ai sognanti accenti amorosi coniuga un virtuosismo verticale di grande energia; e il duetto con Arsace «Ebbene…a te; ferisci», dove tira fuori tutta la tragédienne che è in lei e risulta, semplicemente, fantastica. L’Arsace di Daniela Barcellona è vocalmente perfetto. La cantante riesce, infatti, a declinare tutte le corde della vocalità en travesti di marca rossiniana: da quella squisitamente erotica (la cavatina «Eccomi alfine in Babilonia»), a quella più eroica, statuaria (il duetto con Assur e l’aria del II atto, «In sì barbara sciagura»). Lawrence Brownlee canta un centratissimo Idreno: le sue due arie (peccato la prima sia stata mutilata della cabaletta) sono una lezione di canto rossiniano per pulizia e sgranatura delle fioriture, acuti svettanti, intensità della linea canora. Imponente, potentissimo vocalmente l’Assur di Michele Pertusi, che ci regala una magnifica esecuzione dell’aria della follia («Deh!... ti ferma… ti placa… perdona…»), cogliendo, dunque, tutti gli aspetti del personaggio dell’ambizioso babilonese. Veramente straordinari i comprimari: l’Oroe di Bálint Szabó, l’Azema di Jacquelyn Stucker e il Mitrane di Konu Kim, che oltre alla floridezza della voce posseggono ottime doti recitative.
In conclusione: una Semiramide realizzatasi pienamente, a mio avviso, solo nella facies musicale, lasciando non poche perplessità per una regia non all’altezza.