Vite di Boemia
di Roberta Pedrotti
Il Lobkowitz-Quartett di Haydn, il quartetto Dalla mia vita di Smetana e quello Americano di Dvořák declinano in modo differente il rapporto fra sperimentazione e tradizione, fra forma e radici popolari legate alle terre boeme. L'interpretazione del Pražák Quartet è una garanzia non solo di qualità esecutiva, ma anche di pertinenza stilistica e di spirito.
BOLOGNA, 15 gennaio 2018 - Eccolo, il Tedeschino! Sia caso o fortuna, proprio il primo concerto del 2018 rossiniano della stagione di Musica Insieme, nella sua Bologna, si apre con un quartetto del venerato Haydn, il n. 81 in sol maggiore op. 77 n.1, del 1799, quindi di strettissima attualità quando il piccolo Gioachino compone le sue sei sonate per lo stesso organico (1804). Si sente, nel terzo e nel quarto movimento soprattutto come questi lavori adolescenziali debbano al modello haydniano, ma ancor più all'attacco del secondo, Adagio, quasi si sobbalza pensando all'affinità di spirito, per esempio, con la sinfonia dell'Inganno felice. Sia caso o fortuna, dunque, l'omaggio iniziale ad Haydn si fa omaggio indiretto agli studi bolognesi del Tedeschino Rossini, la fase finale di una carriera gloriosa si allaccia idealmente allo sbocciare di un altro genio. D'altra parte in quest'opera il padre del quartetto sembra fare i conti con la tradizione da lui stesso codificata ed elevata allo stato dell'arte, introducendo rapporti armonici e agogici (quel Minuetto reinventato...) sperimentali ma forieri di sviluppi nel secolo a venire.
Così, nel pieno Ottocento troviamo uno Smetana che, passati i cinquant'anni (e morirà a sessanta) compone il suo primo quartetto e gli dà il titolo già consuntivo Dalla mia vita, in cui spicca, a sostituire il Minuetto e collocandosi nel secondo movimento anziché nel classico terzo, la presenza della Polka, richiamo alla natìa Boemia, la stessa terra del principe Lobkowitz cui Haydn dedicò il suo quartetto. Anche Dvořák nel suo Quartetto n. 12 in fa maggiore op. 96 Americano si rifà a radici tradizionali, che, come nella celeberrima Sinfonia n. 9 Dal nuovo mondo, appartengono e all'Europa orientale e alle terre d'oltreoceano, alle culture dei nativi e dei pionieri. Quello che a noi oggi, con effetto straniante, sembra appartenere all'immaginario country e western doveva apparire affascinante ed esotico al compositore del secondo Ottocento approdato a New York e da sempre interessato al folklore musicale.
Fra forma classica e guizzanti umori popolari, i violini si muovono agili sia che stemperino la Polka un poco nostalgica di Smetana, sia che raccolgano l'eco vispa della Boemia con quella dei nuovi americani in Dvořák. Perfettamente immerso nello spirito dell'impero asburgico orientale in cui tutti i compositori in cartellone sono nati e si sono formati, boemo come due di loro, il Pražák Quartet possiede esattamente quel witz tagliente e inafferrabile che nella precisione musicale riesce a insinuare con agilità l'arguzia di un passo di danza malizioso come un abbandono melanconico dolce quanto le onde del Danubio.
Ancora la Polka, questa volta da un quartetto di Dvořák, chiude la serata, fra applausi scroscianti e meritati.