L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Valery Gergiev

Il Čajkovskij di Gergiev

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si fa teatro di un festival di straordinaria qualità: il ‘Festival Čajkovskij’, che vede l’orchestra del Teatro Mariinskij e il suo direttore, Valery Gergiev, proporre l’integrale delle sinfonie di Pëtr Il’ič Čajkovskij: un ciclo sinfonico straordinario, fra i migliori del XIX secolo per cura formale e espressione di pensiero musicale. L’orchestra del Teatro Mariinskij, per cui il russo è pane quotidiano, palesa una straordinaria familiarità con questo repertorio sinfonico; e, soprattutto, pare seguire financo i minimi gesti del suo direttore, con cui ha un feeling impressionante. Il risultato non può che essere di livello altissimo.

Roma, Iolanta, 11/01/2018

ROMA, 14/15/16 gennaio 2018 – Una cerimonia d’apertura in piena regola, con tanto di autorità d’ambo i paesi, apre il ‘Festival Čaikovskij’, che vede protagonista Valery Gergiev con la fida orchestra del Teatro Mariinskij: oltre a festeggiare l’apertura del festival, appunto, si ricorda che l’Italia sarà protagonista, nel 2018, delle Russian Seasons, un progetto internazionale di valorizzazione della cultura russa all’estero che ha preso via nel 2017 in Giappone con una serie di eventi, artistici, musicali etc. Il 2018, appunto, è l’anno italiano: la nostra patria ospiterà svariati eventi legati alla cultura russa. Quale miglior modo, dunque, di inaugurare quest’anno ‘russo’ dell’Italia con l’esecuzione integrale della produzione sinfonica del più colto e sofisticato dei musicisti russi del XIX sec, Pëtr Il’ič Čajkovskij? Peraltro, esecuzione guidata da uno degli alfieri e massimi interpreti della musica russa, Gergiev, con una delle orchestre dal suono più russo, appunto, che esistano. L’originalità dell’approccio di Gergiev al sinfonismo čajkovskijano, che in queste serate si è percepito assai bene, è stata notata da più parti ed è dato assodato della critica.

Galvanizzato, certamente, dal successo di Iolanta, Gergiev si appresta a immergersi nella produzione sinfonica čajkovskijana con rinnovato vigore, conscio dell’impresa fisica e emotiva che ciò comporta: due sinfonie ogni serata, per un totale di tre serate. Proprio per evitare un sovraccarico emotivo e fisico, Gergiev sceglie di diluire le ultime tre sinfonie di Čajkovskij nelle tre serate (con un ordine di cui tenterò di dare una spiegazione), affiancandole alle prime tre, altrettanto stupende ma certamente meno complesse. L’occasione di ascoltare tutta la produzione sinfonica di Čajkovskij in tre uniche serate è più unica che rara (si pensi alla rarissima – in generale – Terza sinfonia, la ‘Polacca’, la meno eseguita di tutte) e hanno fatto bene quanti – e, mi fa piacere scriverlo, per fortuna non pochi – sono accorsi all’evento. Prima di addentrarmi in un’analisi particolareggiata, vorrei esprimere i miei personali complimenti a Gergiev per la maestria con cui ha diretto questo zoccolo duro della produzione del raffinato compositore suo conterraneo. Sempre vigile di sguardo, a mani nude, senza bacchetta, accompagnando persino il più infimo sussulto della musica col vibrare compartecipe delle sue mani – vispe nel cogliere l’essenza sonora dell’idea čajkovskijana –, Gergiev stupisce per la resa muscolare di molti passaggi (una scelta, certo, non scontata quando si parla di dirigere Čajkovskij), per l’attenzione ai passaggi drammatici e alle ‘giunture’, ai passaggi in cui può stupire il pubblico scatenando in un baleno l’orchestra, con studiato coup de théâtre. Ma sa carezzare con la più soffice dolcezza più di un passaggio, dosando l’effluvio della bellezza raffinata, della lussureggiante orchestrazione di Čajkovskij, affinché non risulti troppo ‘zuccherina’, coprendo il messaggio profondamente emotivo che tale lussureggiare cela; cercando, insomma, sempre l’essenza emotiva dei passaggi, senza cadere nel turbinio di bellezze timbriche come molti direttori fanno, per esempio, dirigendo la musica coreutica del russo. Altra caratteristica lodevolissima di Gergiev è quella di cercare sempre il senso ritmico dei brani, affidandosi alle cellule strenuamente ripetentesi in orchestra, accentandole spesso con vigore, scandendo i temi cardine delle sinfonie, che – specialmente nelle ultime – si ripetono ossessivamente, wagnerianamente; non avendo pudore, inoltre, di esprimere con compiuto orgoglio la grandeur che promana da molti passaggi, soprattutto i finali delle sinfonie, in cui si riconosce un ‘titanismo’ pre-mahleriano che non molti direttori mettono in evidenza appropriatamente. L’orchestra, poi, da par suo esegue stupendamente le partiture: le singole parti sono suonate da musicisti assai competenti, vista la tenuta incredibile delle parti più delicate, notoriamente gli ottoni e i legni. Il suono è quello di chi ama e si dedica intensamente e con dedizione somma alla musica del proprio amato paese.

Veniamo ai dettagli. La sera del 14 gennaio, Gergiev inizia eseguendo la Sinfonia n. 1 in sol minore op. 13 e la Sinfonia n. 6 in si minore op. 74: l’alfa e l’omega del sinfonismo čajkovskijano. Si capisce, così, che Gergiev vuole diluire le ultime tre (presentate invertite rispetto all’ordine di pubblicazione) affiancando a ciascuna una delle prime tre sinfonie, in ordine crescente. Veniamo subito immersi, quindi, nei vapori fatati dell’Allegro tranquillo della Prima, ribattezzata ‘Sogni d’inverno’ proprio per l’evocazione di mondi invernali, glaciali. Già capiamo, subito, cosa sanno fare Gergiev e l’orchestra tutta in termini di dinamiche, chiaroscuri, volumetrie: l’Allegro, appunto, è una creatura fragile come un cristallo e Gergiev la legge con impressionante senso dell’analisi di particolari, stando attento al guizzo frenetico dei legni, che rendono realmente ‘innevata’ la scrittura. L’Adagio risalta nel suo intimo lirismo, un io lirico immerso nelle placide brume invernali: Gergiev è bravo, qui, a darci un assaggio di una lettura dello spartito čajkovskijano caldamente lirica, come farà in svariati altri punti. Ancora guizzi dei legni nello Scherzo, di ascendenza patentemente mendelssohniana, dove il direttore sa mostrarci che è capace anche di leggerezza. Poi il finale, dove Gergiev all’uopo rallenta, indugia, scandendo l’epico tema conclusivo, evocando grandezze. Questa era l’alfa: Čajkovskij, povero e a inizio carriera, rischiò quasi un esaurimento nervoso per concludere la Prima. La leggerezza di molti passaggi (il I e il III su tutti), ma la stessa fatata malinconia del II movimento sembrano, in ogni caso, ancora genuinamente ‘freschi’: Čajkovskij non aveva ancora conosciuto la depressione più nera, né aveva preso coscienza piena del ‘problema’ della sua omosessualità, che lo tormenterà perennemente nella sua vita. La ‘Patetica’, invece, la Sesta sinfonia, l’omega, ci trascina nei foschi pensieri di un senescente compositore, agli sgoccioli della sua vita: umiliato, distrutto dentro, Čajkovskij dava estremo sfogo a quel «desiderio terribile di comporre» (come scriverà a Glazunov), che si reifica splendidamente (per noi) nella Sesta. Impressionante come Gergiev rallenti l’agogica, facendo scandire al fagotto, con sofferenza vibrata, il suo cupo lamento; come trascini in contemplazione la pausa della ripresa dell’Adagio, come poi attacchi l’Allegro non troppo, scandendo con marziale angoscia il ritmo che ingenera una naturale climax verso il tema principale. Come, poi, stringe e allarga quel tema, nell’intento retorico di acuirne l’emotività, mai abbandonata o larmoyant. Dopo una ripresa, più lirica e magniloquente, assistiamo al primo vero coup de théâtre fra quelli di cui parlavo: con fulminea decisione, scatenando in un lampo l’orchestra, Gergiev si tuffa nello sviluppo melmoso da cui emerge il finale, una delle più vivide rappresentazioni del dolore in Čajkovskij, del dolore e della lotta contro il dolore che si traduce in sentimento elegiaco di contemplazione di un passato idealizzato (un modo, anche, per fuggire al presente angoscioso). Gergiev mette a nudo questa scrittura così potente, facendo graffiare i timbri degli ottoni, non preoccupandosi di aprire l’orchestra a incredibile potenza, una potenza che non ne sfibra, in ogni caso, il suono e la tenuta. L’Allegro con grazia vede Gergiev destreggiarsi con asciuttezza di accenti, con lievi rubando qua e là, ben calibrati; nell’Allegro molto vivace fa salire l’orchestra di volume, creando architetture sonore possenti, che si dipanano nello sviluppo fino al finale, che sembra conclusivo, tanto da strappare quasi un applauso. Ma non è così: è un’altra magia di Čajkovskij. Praticamente senza soluzione di continuità, Gergiev fa seguire l’Adagio lamentoso: semplicemente incredibile il suono che gli archi creano, quasi un lamento, ove Gergiev carezza le effusioni del tema principale, fino al finale in cui tutto, sommessamente, sprofonda. Gli applausi invadono la sala: è la prima di tre consecutive standing ovation.

Il giorno successivo (15 gennaio), Gergiev incomincia con la Sinfonia n. 2 in do minore op. 17 e termina con la sontuosa Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64. La ‘Piccola Russia’, la Seconda, inizia con un Andante sostenuto (poi Allegro vivo) dove Gergiev mostra un’agogica più ‘rilassata’ rispetto alla precedente serata. Lascia cantare il corno, che apre a una dimensione lievemente surreale, dove lo sviluppo musicale, a partire dal tema principale, quasi frammentato, si dipana in una scrittura a maglie fitte, di cui il direttore esalta financo le dissonanze, lievi ma midollari. Dopo un inizio coloristico, l’Andantino marziale ci porta in una dimensione biedermeier, dove si percepiscono i calori della casa della sorella di Čajkovskij, Aleksandra, con i suoi figli, i nipoti del compositore (quest’attenzione all’infanzia e al mondo dei bambini è fondamentale nell’opera del compositore). Ecco che Gergiev scontorna bene questo calore borghese, cullandosi nel ritmo di marcetta giocosa. Continua, poi, nello Scherzo, calcando l’aspetto puerile e infantile dei guizzi della scrittura. Termina con una smagliante esecuzione del finale: l’orchestra è straordinaria nel districarsi nell’intreccio di vimini del tema ucraino de “La gru”, di cui Gergiev esalta i ritmi, i colori e termina con fervore la sinfonia. Giunge il momento della Quinta, la sinfonia dello scontro dell’uomo col destino. Gergiev attacca splendidamente il lugubre avvio del I movimento, lievemente marziale, giocando su brevi picchi d’intensità del tessuto orchestrale, sulla voce inesorabile del clarinetto – è un destino cui l’uomo-Čajkovskij deve soccombere: non si può che soccombere alla natura. Il tema principale è porto con lirismo intenso, lo sviluppo cesellato con polso. Gergiev ha, inoltre, il talento di indugiare su alcuni momenti di riflessione lacerante, di ‘digestione’ del dolore della vita; splendido il suono dell’orchestra che si arena, letteralmente, nel finale. Dell’Andante cantabile con alcuna licenza ho apprezzato la resa del vapore malinconicissimo dell’incipit, da cui si leva caldo e lacrimevole il canto del corno: Gergiev sa creare atmosfere incredibili con l’orchestra, rendendo dolcissimo il tema caldo e cantabile degli archi con gli arabeschi dei legni. Quando l’orchestra sale in intensità, Gergiev progressivamente imprime energia, fino alla potente esplosione finale, stupefacente e con tanto di suspense nel ritorno cullante del tema. L’eleganza un po’ retrò della Valse (III) è squisitamente colta dal direttore, che indugia nell’anima coreutica del pezzo, senza però far cadere quella carsica energia che ha impresso a tutta la sinfonia. Nell’ultimo movimento, Gergiev dà vita alla lettura ‘titanica’ di Čajkovskij, con pieno diritto: troppo a lungo si è letto il sinfonismo del russo con le lenti del suo talento per il balletto, sacrificando alcuni spunti essenziali che Čajkovskij ha lasciato alla musica primonovecentesca e, in generale, fin se siècle. Gergiev non ha pudore a far scontrare il tema del destino con uno sviluppo di idee che rappresentano il tormento interiore d’un animo grande: la ‘crudezza’, quasi, del finale è a suo modo catartica. Tutti in piedi: la seconda standing ovation. A questa Gergiev, però, risponde con un bis: lo squisito, magnifico Scherzo del Midsummer Night’s Dream di Mendelssohn, che tanto Čajkovskij ha studiato per i suoi Scherzi, che sanno inconfondibilmente del sapore mendelssohniano.

La terza e ultima serata (16 gennaio) vede protagoniste le due restanti sinfonie: la Sinfonia n. 3 in re maggiore op. 29 “Polacca” e la Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36. La “Polacca”, addirittura, è la prima volta che viene eseguita all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: il motivo è che, sostanzialmente, è stata sempre creduta eccessivamente ‘accademica’. Gergiev, invece, dà pulsante vita alla partitura. Fin dal I movimento: la piccola marcia funebre avanza, fra indugi e tensioni, fino a convogliare in un una crescente tensione che sfocia nell’Allegro brillante, affrontato da Gergiev con quella muscolatura sonora che ci ha fatto riscoprire un Čajkovskij diverso da tante immagini oleografiche che i direttori ci hanno porto nella storia della sua interpretazione. Gergiev sa tornare, con delicata brillantezza e ben altro afflato, alla leggerezza danzante del I Scherzo (Alla tedesca), che s’ingemma di squisitezze sonore nel trio (che si ricorda, ancora una volta, di Mendelssohn). L’Andante elegiaco (III) è diretto con mano magnifica da Gergiev: la melodia degli archi è caldissima, quasi larmoyant, assai sentimentale, trascolorando in una vibrante sezione di mezzo prima di riprendere l’esposizione. Ancora un momento di guizzante colore col II Scherzo, particolare per le ‘folate’ degli archi, ed ecco il finale, dove ancora Gergiev si lascia andare alla muscolare cantabilità del pezzo, di cui esalta, appunto, la resa energica: senza sacrificare, a quanto m’è parso, la sua brillantezza. Calorosi applausi e poi si passa alla Quarta, l’altra sinfonia del destino (assieme alla Quinta): v’è, anzi, un documento magnifico (per valore storico-artistico, oltre che umano), una lettera in cui Čajkovskij tenta di descrivere il programma della sinfonia alla sua misteriosa mecenate von Meck, dal quale si desume come il russo si fosse chiaramente ispirato alla Fantastique di Berlioz. Con quale energia gli ottoni prorompono, granulosi nel timbro, inesorabili, ad aprire il I movimento della Quarta: è il tema del Fatum – come scriveva Čajkovskij – che imperioso domina su tutte le cose. Abilissimo, Gergiev, a trascolorare al sinistro valzer che costituisce il secondo tema, a destreggiarsi fra i colori dello sviluppo – incredibile l’effetto quasi di palpitare dei volumi. Nell’Andantino in forma di canzona, Gergiev esalta la cantabilità non solo della melodia dell’oboe, ma anche della malinconica linea degli archi; nel successivo Scherzo, invece, riesce a creare un’atmosfera fantastica con il pizzicato degli archi, che a tratti pare un velo sonoro impercettibile, a tratti riprendere vigore (qui la coordinazione degli archi dell’orchestra è stata realmente straordinaria!). L’ennesimo dei coup de théâtre, cui ci ha abituati il direttore, apre l’ultimo movimento, in cui Gergiev cesella bene il tema ucraino e le sue variazioni; poi verticalizza in potenza, nell’ambiguo ritornare del tema del destino, fino al compiuto finale. Gli applausi sorgono scroscianti: è la terza standing ovation, cui Gergiev fa seguire, per congedarsi, la polonaise dell’Evgenij Onegin, che suona squisitamente brillante.

foto Musacchio & Ianniello


 

 

 
 
 

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