La nostalgica intimità dell’eroismo
di Alberto Ponti
Alla splendida interpretazione del Secondo concerto di Brahms si accoppia una Settima di Dvořák di coinvolgente intensità
TORINO, 30 novembre 2018 - Al modo del giovanile e tormentatissimo primo concerto per pianoforte e orchestra, anche la seconda prova di Johannes Brahms (1833-1897) nello stesso campo, la sontuosa e definitiva op. 83 in si bemolle maggiore (1881) tende ad uscire dai canoni tradizionali del genere per avvicinarsi a un originale ibrido tra concerto e sinfonia. La presenza di quattro movimenti in luogo di tre, l’imponenza degli sviluppi e la densità del discorso orchestrale rendono l’opera un unicum irripetibile nel catalogo dello stesso compositore, della cui arte rappresenta una delle vette massime. Francesco Piemontesi alla tastiera e Pietari Inkinen sul podio sono, per le rispettive caratteristiche musicali, una coppia ideale per questo lavoro, come ha avuto modo di rendersi conto il numeroso pubblico accorso all’auditorium Rai giovedì 29 e venerdì 30 novembre.
Il pianista svizzero colpisce nel segno privilegiando un suono pieno, dalla cantabilità edonistica e grandiosa, nel blocco marmoreo dell’Allegro non troppo e del successivo Allegro appassionato, accarezzando risonanze quasi d’organo nell’incisività felpata dei bassi come nelle cascate cristalline del registro acuto, ma sfoderando all’occorrenza tutto il virtuosismo strepitoso e trascendentale richiesto da una scrittura notoriamente tra le più ardue dell’intero repertorio. Un’introspezione delicata, risplendente anche nell’encore dell’Intermezzo in mi bemolle maggiore op. 117 n. 1, ammanta il dialogo col violoncello solo dell’Andante per librarsi, con tocco pregno di delicata emozione, ad altezze angeliche nel finale del movimento. L’alternanza tra giochi di luce e ombra, già presente nella partitura ma enfatizzata dalla sapiente mano di Piemontesi, capace di avvincere e convincere con aristocratica brillantezza, si dispiega infine nel rondò Allegretto grazioso, diviso, nella conciliazione degli estremi possibile solo nelle letture di serena maturità, tra la quieta pacatezza di una trattazione filosofica e l’allegria spensierata di una gita fuori porta.
Inkinen distilla dall’Orchestra Sinfonica Nazionale un umore tardoromantico, adatto alle maestose pennellate brahmsiane, qua e là screziate di accenni eroici e di indicibili nostalgie, caratteristiche che si ritrovano pari passo nella seguente Sinfonia n. 7 in re minore op. 70 (1885) di Antonín Dvořák (1841-1904), immersa tuttavia, nonostante il respiro drammatico dei tempi estremi, in un ottimismo di fondo scevro da inquietudini troppo sconsolate. Di fronte a pagine di tal fatta non si può ogni volta che rimanere ammirati: è difficile trovare un’ispirazione più fluente, una libertà inventiva più personale all’interno di una cornice di perfetta compiutezza della forma.
Dalla bacchetta del maestro finlandese, dal suo incedere serrato e perentorio scaturiscono con elettrizzante magnetismo i contrasti incessanti disseminati dal compositore. I gruppi strumentali trovano così, senza eccezione, la giusta intensità espressiva: la calda frase introduttiva di viole e violoncelli, il colore dorato degli ottoni nel Poco adagio dal tono leggendario, l’elegante e sinuosa agilità degli archi nelle movenze dello Scherzo, brano di apparente spontaneità ma frutto di un cesello artigianale che rivela l’enorme maestria costruttiva dell’autore. Nell’Allegro finale, affrontato da Inkinen con contagiosa esuberanza nel suo volgersi graduale dalle tenebre al trionfo, si tirano le somme di un capolavoro che potrebbe annoverarsi tra i maggiori esiti non solo del corpus di Dvořák ma di tutta la letteratura sinfonica della seconda metà dell’Ottocento. Il gran lavoro di ogni sezione orchestrale, sottoposta al continuo turbinio di temi principali e secondari attaccati con passo sicuro e smagliante senso della varietà timbrica, accende l’entusiasmo della sala, nella quale folta è la componente giovanile, che aveva già riservato a Francesco Piemontesi acclamazioni da autentica star, rivolte con palpabile commozione anche ad alcuni storici professori alla loro ultima apparizione tra le fila della compagine torinese.
foto Maria Vernetti
La nostalgica intimità dell’eroismo
Alla splendida interpretazione del Secondo concerto di Brahms si accoppia una Settima di Dvořák di coinvolgente intensità
Al modo del giovanile e tormentatissimo primo concerto per pianoforte e orchestra, anche la seconda prova di Johannes Brahms (1833-1897) nello stesso campo, la sontuosa e definitiva op. 83 in si bemolle maggiore (1881) tende ad uscire dai canoni tradizionali del genere per avvicinarsi a un originale ibrido tra concerto e sinfonia. La presenza di quattro movimenti in luogo di tre, l’imponenza degli sviluppi e la densità del discorso orchestrale rendono l’opera un unicum irripetibile nel catalogo dello stesso compositore, della cui arte rappresenta una delle vette massime. Francesco Piemontesi alla tastiera e Pietari Inkinen sul podio sono, per le rispettive caratteristiche musicali, una coppia ideale per questo lavoro, come ha avuto modo di rendersi conto il numeroso pubblico accorso all’auditorium Rai giovedì 29 e venerdì 30 novembre.
Il pianista svizzero colpisce nel segno privilegiando un suono pieno, dalla cantabilità edonistica e grandiosa, nel blocco marmoreo dell’Allegro non troppo e del successivo Allegro appassionato, accarezzando risonanze quasi d’organo nell’incisività felpata dei bassi come nelle cascate cristalline del registro acuto, ma sfoderando all’occorrenza tutto il virtuosismo strepitoso e trascendentale richiesto da una scrittura notoriamente tra le più ardue dell’intero repertorio. Un’introspezione delicata, risplendente anche nell’encore dell’Intermezzo in mi bemolle maggiore op. 117 n. 1, ammanta il dialogo col violoncello solo dell’Andante per librarsi, con tocco pregno di delicata emozione, ad altezze angeliche nel finale del movimento. L’alternanza tra giochi di luce e ombra, già presente nella partitura ma enfatizzata dalla sapiente mano di Piemontesi, capace di avvincere e convincere con aristocratica brillantezza, si dispiega infine nel rondò Allegretto grazioso, diviso, nella conciliazione degli estremi possibile solo nelle letture di serena maturità, tra la quieta pacatezza di una trattazione filosofica e l’allegria spensierata di una gita fuori porta.
Inkinen distilla dall’Orchestra Sinfonica Nazionale un umore tardoromantico, adatto alle maestose pennellate brahmsiane, qua e là screziate di accenni eroici e di indicibili nostalgie, caratteristiche che si ritrovano pari passo nella seguente Sinfonia n. 7 in re minore op. 70 (1885) di Antonín Dvořák (1841-1904), immersa tuttavia, nonostante il respiro drammatico dei tempi estremi, in un ottimismo di fondo scevro da inquietudini troppo sconsolate. Di fronte a pagine di tal fatta non si può ogni volta che rimanere ammirati: è difficile trovare un’ispirazione più fluente, una libertà inventiva più personale all’interno di una cornice di perfetta compiutezza della forma.
Dalla bacchetta del maestro finlandese, dal suo incedere serrato e perentorio scaturiscono con elettrizzante magnetismo i contrasti incessanti disseminati dal compositore. I gruppi strumentali trovano così, senza eccezione, la giusta intensità espressiva: la calda frase introduttiva di viole e violoncelli, il colore dorato degli ottoni nel Poco adagio dal tono leggendario, l’elegante e sinuosa agilità degli archi nelle movenze dello Scherzo, brano di apparente spontaneità ma frutto di un cesello artigianale che rivela l’enorme maestria costruttiva dell’autore. Nell’Allegro finale, affrontato da Inkinen con contagiosa esuberanza nel suo volgersi graduale dalle tenebre al trionfo, si tirano le somme di un capolavoro che potrebbe annoverarsi tra i maggiori esiti non solo del corpus di Dvořák ma di tutta la letteratura sinfonica della seconda metà dell’Ottocento. Il gran lavoro di ogni sezione orchestrale, sottoposta al continuo turbinio di temi principali e secondari attaccati con passo sicuro e smagliante senso della varietà timbrica, accende l’entusiasmo della sala, nella quale folta è la componente giovanile, che aveva già riservato a Francesco Piemontesi acclamazioni da autentica star, rivolte con palpabile commozione anche ad alcuni storici professori alla loro ultima apparizione tra le fila della compagine torinese.