Nona di Beethoven, onda per l’amicizia
di Francesco Lora
Lungo le tradizionali Vie dell’Amicizia e mediante il capolavoro sinfonico-corale, Riccardo Muti, Ravenna e il suo Festival incontrano Atene e i musicisti greci, con un concerto dove il simbolo culturale precede la rifinitezza tecnica.
RAVENNA, 11 luglio 2019 – Cosa sarebbe l’Europa senza l’Italia e la Grecia, la loro storia, la loro civiltà e – nonostante, addirittura: pelo sullo stomaco se n’è accumulato – il loro presente? Nel momento dell’anacronistico delirio sovranista ed euroscettico, Riccardo Muti e Ravenna Festival hanno posto la domanda retorica, e hanno indirizzato verso Atene la ventitreesima edizione delle Vie dell’Amicizia: un concerto di sferzante valore simbolico, che ha avuto luogo il 9 luglio all’Odeon ateniese di Erode Attico e due giorni dopo al Palazzo Mauro De André di Ravenna. A formare da sé sola il programma, dopo gli inni nazionali d’ordinanza, l’inaccostabile Sinfonia n. 9 di Beethoven: quella che spalanca il repertorio sinfonico alla voce umana mediante il canto schilleriano di fratellanza tra popoli; quella che con un messaggio sovranazionale ha dato legge all’Ottocento musicale sotto il proprio monstrum; quella che con le battute 140-187 del quarto movimento ha infine fornito l’inno senza parole all’Unione Europea.
Nel progetto di Muti e del Festival, il simbolo culturale ha il primato. Fraternamente nove sono stati, dunque, i complessi riuniti a costituire l’orchestra e il coro: l’Orchestra giovanile Luigi Cherubini, la Nazionale di Atene, la Sinfonica nazionale di Salonicco, la Sinfonica giovanile greca, la Sinfonica della Città di Atene, la Filarmonica di Atene, la Sinfonica nazionale dell’ERT con il relativo Coro, il Coro della Municipalità di Atene e infine il Costanzo Porta di Cremona. Non bastasse, ulteriori ospiti di grido hanno preso parte all’ecumenica formazione: è il caso di Francesco Manara, primo violino solista del Teatro alla Scala, qui eletto alla sinistra del direttore. Ma fa parte del gioco, virtuoso, che il simbolo preceda così la forbitezza: in queste righe si sta dando conto di un’intenzione, di un messaggio e di un progetto i quali sono amichevolmente umani prima che smaliziatamente musicali; i musicisti coinvolti, in altre parole, differivano tra loro per estrazione tecnica, e non potevano vantare la comune identità artistica perfezionata da un lungo lavoro assieme.
Uno solo è stato il punto di riferimento: Muti. Che assesta la poderosa pennellata timbrica, compiaciutamente antiquaria, cara agli scorsi anni Settanta-Ottanta discografici; che fa incedere sempre un poco sottotempo, con fraseggio invariabilmente legatissimo, un’ombra pessimista e un filo di stanchezza; che preferisce, infine, l’ostensione dell’unitario monumento sinfonico alla ricerca di varietà agogica ed escursione dinamica (lo sviluppo del primo movimento, con i suoi scoppi di ferocia, ne soffre un poco di conseguenza). Sotto una bacchetta che getta campate così impassibilmente ampie, l’orchestra si sfilaccia e non matura l’attesa tensione di discorso; monta in cattedra, però, per esempio, tra altri luoghi felici, nei lucenti colpi di lama che i violini articolano – quasi un segnale tecnico – proprio alle fatidiche battute 140-187, o nella nera, densa, severa assertività di violoncelli e contrabbassi nel precedente recitativo strumentale: da essi viene un monito che sembra, per paradosso, tanto più esplicito in mancanza di verbo.
Le voci soliste sono eroiche già per il fatto di cimentarsi nell’improba scrittura beethoveniana: al radioso soprano Maria Mudryak e al carnoso mezzosoprano Anastasia Boldyreva si affiancavano il tenore Luciano Ganci, con la sua immediata comunicativa all’italiana, e il basso Evgeny Stavinsky, con il suo sfarzoso esotismo timbrico alla russa. Preparato da Antonio Greco e Stavros Beris, il coro era di pregio superiore all’orchestra. A ratificarlo pare essere stata la complicità stessa di Muti quando, all’esplosione massima dell’ode An die Freude, ha anticipato di un nulla l’attacco delle voci su quello degli strumenti: ne è derivata un’onda sonora da lasciare allibiti i professori stessi. Ma nel protestare con un discorso conclusivo la difesa della cultura musicale italiana e della sua negletta nuova generazione, con le solite parole traboccanti di agognata verità, ironia appuntita, eloquio sfavillante e impensata simpatia, il maestro ha prodotto un’onda ancora più memorabile: la Presidente del Senato, sorridente, applaudita, seduta sotto di lui, dev’esserne uscita spettinata.
foto Silvia Lelli