Il Verdi di Muti per Karajan
di Francesco Lora
Al concerto di ferragosto del Festival di Salisburgo, la Messa da Requiem di Verdi commemora il trentesimo anniversario della scomparsa di Herbert von Karajan. Lucida serenità e scientifico distacco fanno nuova la lettura di Riccardo Muti, seguìto in ciò dai Wiener Philharmoniker, dal Coro della Staatsoper di Vienna e dalle voci soliste di Krassimira Stoyanova, Anita Rachvelishvili, Francesco Meli e Ildar Abdrazakov.
SALISBURGO, 13 agosto 2019 – Nell’età del regno di Herbert von Karajan al Festival di Salisburgo, il concerto di ferragosto fu per lui una prerogativa pluridecennale. Dopo la sua morte, tale prerogativa è stata ereditata da Riccardo Muti, che da Karajan ebbe stima, affetto e testimone, e che negli anni non ha perso occasione di commemorarlo. Lo ha fatto nel 2008 per il centenario della sua nascita, studiando appositamente Ein deutsches Requiem di Brahms, e lo ha fatto quest’anno per i trenta dalla sua scomparsa, leggendo ancora una volta l’amata (da entrambi) Messa da Requiem di Verdi: tre esecuzione nel Grosses Festspielhaus, il 13, 15 e 17 agosto. Tra le innumerevoli interpretazioni di Muti, ecco quella che più si discosta dalle altre: impenetrabilmente buia e morsa dai cimbassi in Requiem et Kyrie, Dies iræ e Libera me, ossia le parti che recano la più esplicita tinta funerea, e sempre tenuta a passo austero – un quarto d’ora più della media ordinaria – con amorevole plasticità di accompagnamento; schiusa però a luci inattese – e dunque tanto più abbacinanti e latrici di conforto – nell’interna oasi di Offertorium, Agnus Dei e Lux æterna (per non parlare di un Sanctus smagliante come se la paternità stilistica fosse stata scippata a Berlioz). Più che un concerto, è l’invito a partecipare coralmente – anche soltanto attraverso l’ascolto: ciò che la società oggi dimentica – a un rito di dolore, memoria e speranza: nonostante l’organico orchestrale non sia strabocchevole, e nonostante nessuna intenzione titanica osi scavalcare l’ispirazione lirica, questa esecuzione attinge la monumentalità umana, civile, unanime di quel Requiem mozartiano diretto nel 2001 al Teatro alla Scala, in intimo dialogo tra il podio e un pubblico appena rimasti orfani di Giuseppe Sinopoli. È la Messa da Requiem secondo un concertatore che l’ha interpellata lungo l’intera propria parabola artistica, e che nella vita ha abbastanza meditato sul mistero della morte per riferirne con lucida serenità e scientifico distacco, come se nel giorno del giudizio egli si trovasse accanto al Dio che perdona e non agli uomini incerti della sua misericordia. Si ascolti per esempio il finale del Libera me, dopo che il soprano solo ha sconfinato nel Do sopracuto e il coro ha declamato in fortissimo il terrore generale; lì la cadenza perfetta vede ricadere l’accordo di Sol su uno di Do minore che, solitamente, ne conserva ancora il gigantesco e angosciante fragore: alla mente torna il ricordo visivo di un Muti più giovane, lì inesorabile nel gesto, madido di sudore, pulsante nelle vene; il 13 agosto 2019, tutto pare cambiato: quell’accordo di Sol ricade in uno di Do minore che abbraccia, consola, spegne l’inferno spalancato e urlante fino a un attimo prima, sotto le mani di un Muti che si erge ancora più autorevole nello svelare un improvviso assaggio di pace. A seguirlo fino a quel passo memorabile sono, da pari loro, i Wiener Philharmoniker. Il Coro della Staatsoper di Vienna vanta invece ferrea esattezza di solfeggio e studio dei colori espressivi, più che l’esuberante gamma timbrica e la schiacciante volumetria di un coro con stile, tecnica e materiale all’italiana. Di richiamo internazionale il quartetto delle voci soliste; lo componevano in primo luogo: il soprano Krassimira Stoyanova, sorvegliato nella modulazione, misurato nell’espressione e poderoso nel registro di petto; il tenore Francesco Meli, tentato dall’esibire solare stentoreità ma subito richiamato a smorzature ai limiti dell’ineseguibile; e il basso Ildar Abdrazakov, con il suo sontuoso dispiegamento di armonici, alla privilegiata maniera degli slavi. È curioso osservare come Muti permetta loro di interpolare note di passaggio non espresse nella partitura, o persino – come fa il soprano – di anticipare la sensibile prima che il coro esploda nel Rex tremendæ maiestatis. Si distingue tra tutti il mezzosoprano Anita Rachvelishvili, un diamante grezzo nel quale la forbitezza tecnica può lasciarsi, con buona pace generale, scavalcare da mezzi di imprevedibile importanza: quelli che ardono sotto le braci quando il direttore la chiama a esprimersi pianissimo, e quelli che invitano il direttore stesso a scambiare tra podio e leggio spunti dialettici. Addirittura commuovendo.