Il genio nell’ombra
di Antonino Trotta
Con un recital in cui si rincorrono conferme e delusioni, Ivo Pogorelich torna a Torino per l’Unione Musicale.
Torino, 27 novembre 2019 – La qualifica di “genio” sulle spalle pesa, sempre. Se poi questa consacrazione si riceve per imposizioni delle mani di nostra Signora del pianoforte Martha Argerich, la si accetta anche con religiosa cedevolezza. Certo, se tra una benedizione e l’altra dalle dita delle divinissima fosse sgorgato, oltre allo spirito santo, anche una sola goccia del suo elisir di lunga vita, oggi molto probabilmente si scriverebbe di Pogorelich meno a malincuore.
Quanto a estro interpretativo, audacia e autorevolezza del linguaggio musicale, immutate e innegabili proprietà della sua poetica pianistica, alcunché da postillare. Pogorelich rimane quel genio, piaccia o meno, che per più di vent’anni ha conquistato i palcoscenici di mezzo mondo: chiavi di lettura sconvolgenti, ora azzardate, ne fecero uno dei pianisti più interessanti sulla piazza. Oggi ritroviamo tutta l’ombra di quel genio, ma anche il genio un po’ nell’ombra, per quella parabola involutiva che, vuoi anche a seguito di delicatissime vicissitudini personali, la sua tecnica sottolinea sardonica. O meglio questo è ciò che si palesa immediatamente all’orecchio durante l’ascolto del recital tenuto a Torino per l’Unione Musicale.
Forse riproporre alcuni tra i grandi classici del proprio repertorio che, immortalate nell’eternità del vinile hanno l’unico difetto di essere diventati, se non pietre miliari, ineludibili termini di paragone, è già di per sé una mossa assai sbagliata. Riaffiorano nella Gaspard de la nuite quei tempi dilatati e provocatori, disumani da sostenere e rendere credibili in una scrittura dalle nuance così evanescenti, ma che sconvolgono senza travolgere l’ascoltatore per la generale pesantezza del tocco e soprattutto per l’assenza assoluta di colore. Ma è ingenerale la fluidità dell’articolazione a sembrare compromessa: i trilli ad esempio, nell’Ondine e nella barcarola op.60 di Chopin, ancora ammiccante per l’uso ingegnoso del rubato, appaiono faticosi, mal sciorinati. E questa mancanza di leggerezza, presente già nella suite inglese no. 3 di Bach, si fa ancor più fastidiosa nella sonata in si bemolle maggiore op. 22, dove talora si amplifica anche in un gioco di proporzioni sonore del tutto sconclusionate.
Purtroppo non un bel concerto. E dire che quella cadenza del terzo di Rachmaninov che Pogorelich accennava, riscaldandosi sul palcoscenico pochi minuti prima dell’inizio del recital, all’ombra delle luci della ribalta, aveva introdotto gli astanti a ben altre prospettive. Un vero peccato.