Beethoven con pathos
di Antonino Trotta
L’entusiasmante duo Dego-Leonardi ritorna sul palcoscenico dell’Unione Musicale per concludere il ciclo dedicato alle sonate per violino e pianoforte di Beethoven.
Torino, 28-29 settembre 2020 – Ormai più un anno fa quando si immaginava, musicalmente parlando, il 2020 come trionfale celebrazione dei duecentocinquanta anni dalla nascita di Beethoven, alcune società concertistiche cominciarono addirittura a portarsi avanti coi lavori: trentadue sonate per pianoforte, concerti, sinfonie, trii, quartetti, sestetti, settimini, persino un ottetto, tutto in una stagione sola faticava a entrare così l’Unione Musicale di Torino, nel mese di aprile 2019, già schierava in campo il duo Dego-Leonardi per l’integrale delle sonate per pianoforte e violino. Poi, purtroppo per noi, quest’anno s’è persa voglia di far festa ma appena s’è potuto, e comunque ancora in tempo per un compleanno di tutto rispetto, il duo di lunga data è tornato – con quattro concerti in due giorni – sul palcoscenico del Conservatorio Giuseppe Verdi per conclude quanto s’era iniziato.
Delle dieci sonate per pianoforte e violino Francesca Dego e Francesca Leonardi hanno innanzitutto una visione d’insieme che corrobora l’interpretazione di ogni capitolo: le sonate giovanili mostrano qua e là le intuizioni delle ultime nonostante l’evidente impronta di foggia mozartiana, quelle più mature hanno memoria della propria origine e così, tra le une e le altre, non si percepisce mai una brusca differenza nello stile esecutivo che, in fin dei conti, si presente quale un’approfondita riflessione sull’intera antologia. Il Rondo (Allegro molto) dalla sonata n.3 op.12 n.3 in mi bemolle maggiore ad esempio, che pur procede con la spensierata leggiadria peculiare di tale forma, acquista nei lapidari frammenti in minore, affrontanti dal duo con piglio incendiario, quel carattere grandioso a cui Beethoven mirerà poco dopo nel Rondo della celeberrima sonata per pianoforte n. e che metterà porterà a pieno compimento con l’ultimo movimento della Waldstein.
Del resto il patetismo eroico di Beethoven avvampa già nella sonataper volino immediatamente successiva(n.4 op.23 in la minore), decisamente originale nella struttura – il movimento d’apertura sembra a tutti gli effetti un movimento di chiusura, in seconda posizione si trova un fantasioso episodio in luogo dei canonici cantabili o scherzi, ogni movimento finisce sempre con un piano – e certamente accostabile alla sonata n.7 o alla Kreutzer per densità di scrittura e forza drammatica. Se l’Andante scherzoso, più Allegretto centrale per Dego e Leonardi è l’affermazione del porgere aggraziato, degli sguardi ammiccanti, del canto svenevole accennato a fior di labbra, agli estremi della partitura il dettato beethoveniano si dimostra di tutt’altra caratura e tanto l’Allegro molto conclusivo quanto, se non soprattutto, il Presto iniziale sono letti con trascinante carica di pathos. Qui dove il colore sonoro diventa poetica, dove gli strumenti si avvicendano alla ribalta senza alcuna relazione di subordinazione, l’eccezionale affiatamento, l’alchimia che si instaura tra pianoforte e violino interviene allora per un perfetto ingrassaggio della macchina scenica beethoveniana, tutta fatta di primi piani e sfondi, giochi di canti e controcanti che mai l’agguerritissima coppia delude o elude.
La sopracitata sonata n.7 op.30 n.2 in do minore è un vera e propria ridda di sensazioni. Scritta agli albori dell’Ottocento e abitata da un inconfondibile spirito romantico, questa sonata offre al duo Dego-Leonardi l’opportunità di sfoggiare una grande varietà di registri e linguaggi invocati a declinare, con sfumature ovunque differenti, quell’energia cupa e minacciosa che anima l’intero capolavoro beethoveniano. Possente nel suo incedere drammatico, dal caliginoso trillo del pianoforte iniziale fino all’esplosione appassionata della coda conclusiva l’Allegro con brio d’apertura accumula tensione di battuta in battuta. Dego e Leonardi lavorano di fino: il tempo staccato, non eccessivamente irruento, consente loro di calibrare alla perfezione ogni dettaglio, ogni minuscola dinamica, ogni impercettibile variazioni ritmica sicché la narrazione musicale, concitata e forbita, pare incollare l’ascoltatore alla poltrona. Anche l’Adagio cantabile e lo Scherzo centrali, nonostante le generose eco di vezzosità settecentesche, non appaiono mai dimentichi del clima dell’intera sonata. Le violente scalette ascendenti del pianoforte nel primo – che anticipano la sortita del solista nel celebre terzo concerto per pianoforte in do minore –, il fraseggio frammentario, a tratti isterico e irrequieto del secondo, balenano come fulmini a ciel sereno e preannunciano, seppur in via indiretta, il ritorno alle alte temperature nel Finale.
In netto contrasto con la settima, la sonata n.10 op. 96, l’ultima di Beethoven destinata a violino e pianoforte, è invece pervasa da una rassicurante trasparenza, dalla genuinità di un dialogo intimo e confidenziale tra le parti coinvolte che preferisce la serenità dell’equilibrio alle calde frizioni del conflitto. Francesca Dego, che suona uno strumento dal timbro carnoso e seducente, inonda di luce l’incoativo Allegro moderato. Com’anche nel successivo Adagio, entrambe danno ora luogo a un paradiso uditivo fatto di sonorità vellutate, canti dall’armoniosa raffinatezza espressiva e ineccepibile senso della misura che media con gusto ciascuna arcata musicale. Lo Scherzo e il Poco Allegretto conclusivi aggiungono infine un po’ di pepe al sublime melodiare e chiamano alla memoria, oltre alle scene pastorali tipiche di molte delle sue sinfonie, l’ebrezza vitalistica presente anche nelle prime sonate.
Tanti bis e tanti applausi, strameritati, alla fine di ciascun concerto.