Fluido mesmerico
di Roberta Pedrotti
Fra gli eventi di punta del Festival Verdi 2020, nel Teatro Regio riaperto in sicurezza, Valery Gergiev dirige l'orchestra del Comunale di Bologna in un programma che spazia da Rossini a Mendelssohn, da Verdi a Čajkovskij e dà una nuova prova del suo straordinario carisma.
PARMA, 2 ottobre 2020 - Ci sono diversi principi in base ai quali possiamo distinguere delle tipologie di direttori d'orchestra. Per esempio abbiamo maestri che si dedicano con acribia alle prove approdando al concerto solo dopo un lavoro minuzioso; viceversa, altri, non amano spendere energie nella preparazione, concentrando tutta la tensione nell'esperienza unica della performance. In entrambi i casi, è il risultato che conta, e in entrambi i casi può essere mediocre o eccellente.
Seppure, dunque, sul risultato dobbiamo concentrarsi, far mente locale al metodo di Valery Gergiev è ad ogni modo impressionante, tanto più se pensiamo che la scarsa inclinazione del maestro alle prove si sposa agli impegni fitti dell'orchestra del Comunale di Bologna che, anche ammettendo alternanze d'organico, arriva al concerto parmigiano dopo tre recite consecutive dell'Elisir d'amore. Nel frattempo, Gergiev salta da un capo all'altro dell'Europa con la fida orchestra del Mariinskij e in questo caso l'intesa immediata si dà per scontata. Come andrà, invece, con l'orchestra italiana, in tutt'altre faccende affaccendata nelle ultime settimane? Benissimo. Mago o mistico, demone o seduttore che sia, Gergiev sembra possedere nel gesto un fludo mesmerico e instaura un legame sorprendente, fa sua l'orchestra, ne plasma il suono anche là dove la tradizione italiana privilegi altre sonorità rispetto ai poderosi contrabbassi e agli ottoni imperiosi dei complessi slavi. I professori del Comunale non si trasformano, insomma, in quel che non sono, ma captano dal concertatore, senza podio e quasi senza bacchetta, un'idea di profondità timbrica, una plasticità sonora che sono il segno dell'intera serata.
Il repertorio è ben scelto per mettere in luce al meglio il connubio nel quadro del Festival Verdi - e di un Festival Verdi che guarda al respiro internazionale dell'opera del genius loci. C'è l'opera, c'è il Rossini parigino della sinfonia del Guillaume Tell e c'è Verdi di ritorno da San Pietroburgo che scrive un'ouverture per la versione milanese della Forza del destino andata in scena nel teatro degli Zar; c'è il tedesco Mendelssohn che dedica una sinfonia all'Italia; infine si approda ancora a San Pietroburgo, per la Quinta sinfonia di Čajkovskij. Italia, Europa, Russia. Ci sono temi ricorrenti di danza, quelle popolari di Mendelssohn e il valzer quasi ossessivo di Čajkovskij, c'è il richiamo alla natura, c'è una nota riflessiva e malinconica che si risolve in esplosioni d'energia e nell'incombere inesorabile del fato.
Senza podio, senza leggio e partitura, mani libere se non fosse per un simbolico stecchino che funge da bacchetta, Gergiev ispira l'orchestra, ne trae la materia desiderata e quindi la manipola nel pulsare del tempo, vibrante già nell'afflato lirico del canto dei violoncelli nel Guillaume Tell, che confluisce in un crescendo impalpabile fino a deflagrare nella tempesta. Tutto senza perdere mai, anche negli scatti repentini, la continuità del discorso, come emerge in piena evidenza con Mendelssohn, quando la propulsione ritmica impressa già nelle prime battute giunge ben articolata fino all'epilogo e rivela un'agile leggerezza anche nell'impasto denso e profondo plasmato dal direttore. Un impasto che prende poi le forme disperate, gli slanci dolorosi e furibondi della sinfonia della Forza del destino: e sarà pur pagina concepita per le scene italiane, ma l'affinità con lo spirito čaikovskijano della Quinta, con quel suo incedere latente o patente di valzer, con l'incarnazione del destino nelle trombe e nei tromboni dal suono un po' ruvido e brutale, senza apparire difetto quanto piuttosto coerenza poetica. La magniloquenza, intesa come grandezza e non come vuota retorica, della sinfonia giunge all'estremo della tensione, ma non lo supera, tant'è vero che Gergiev controlla le ultime battute in modo che la fanfara fatale trionfante si ripieghi negli ultimi accordi di cesura senza travolgerne la fermezza e la solennità. E l'effetto è tale che si rimane attoniti un istante prima che esplodano i prolungati applausi. Niente bis, ma va bene così non si può non uscire soddisfatti dopo un tale programma, una tale coerenza poetica, una tale prova di mesmerico carisma. E, ogni tanto, fa bene anche ricordare che sedersi a teatro per un concerto non è poi così scontato come credevamo otto mesi fa.
foto Ricci