L’enfant prodige
di Stefano Ceccarelli
Il concerto che ha visto protagonisti la direttrice Susanna Mälkki e il pianista Alexander Malofeev, oltre a farci godere di ottima musica, ha testimoniato ancor di più le doti straordinarie del giovanissimo Malofeev alla tastiera, cimentato in un suo cavallo di battaglia, il Concerto n. 1 in si bemolle minore per pianoforte e orchestra op. 23 di Pëtr Il’ič Čajkovskij, concertato magnificamente dalla Mälkki, che ha pure diretto Flounce di Lotta Wennäkoski e il Concerto per orchestra, BB 123 (SZ 116) di Béla Bartok. Ambedue sono al debutto in Accademia.
ROMA, 30 gennaio 2020 – Quando si assiste a un talento puro, si rimane assolutamente estasiati. Se, poi, tale talento fiorisca in così giovane età, sopravviene una sorta di tenerezza e stupore per delle doti che non ci si aspetterebbe in un ragazzo. È proprio il caso di Alexander Malofeev, attorno a cui (non me ne voglia la pur eccellente Mälkki) inevitabilmente ruota il concerto odierno.
Malofeev – classe 2001: ha 19 anni! – possiede sicuramente un dono naturale, una straordinaria musicalità, una percezione fisica del suono e della sua qualità che è superiore alla maggior parte delle altre persone. Ha iniziato a suonare il pianoforte da giovanissimo (cinque anni); e ha iniziato da solo, senza insegnanti. Ciò dimostra che quando la natura chiama, quando un talento straripa, non può che, si voglia o no, esprimersi appieno, magari anche con eccellenti risultati, com’è il caso di Alexander. È talmente giovane, peraltro, che sta ancora studiando in Conservatorio, a Mosca. Eppure, risulta già un concertista addirittura smaliziato, nella naturalezza con cui esprime fisicamente le emozioni che trasmette attraverso lo strumento del pianoforte.
Ma procediamo con ordine. Il concerto è aperto da Flounce, in prima esecuzione italiana, che è un pezzo della finlandese Lotta Wennäkoski. Si tratta, nel più puro stile contemporaneo, di una rapsodia di frammenti melodici, molto fluida, attenta al puro colore orchestrale, che si lascia ben apprezzare nelle sue screziature coloristiche. La direttrice Susanna Mälkki mostra buon polso, un gesto fluido ed elegante e un’eccellente intesa con l’orchestra dell’Accademia. Dopo gli applausi entra sul palco Malofeev, pronto per il Primo di Čajkovskij. Fin dall’attacco con l’orchestra, nell’eseguire la pioggia di accordi che apre nobilmente il concerto, mentre l’orchestra intona il celeberrimo tema dell’Allegro non troppo, l’enfant prodige si svela impressionantemente musicale. Se si ha nell’orecchio, peraltro, l’esecuzione che del medesimo pezzo ne dava a 15 anni (!), per esempio con Gergiev alla Scala nel 2017, si potrà notare l’abisso che separa la vecchia lettura da quella odierna: Malofeev ha acquistato un netto miglioramento nel tocco, nella gestione delle dinamiche, nell’abilità della scioltezza nelle variazioni. Insomma, sente lo strumento con incredibile naturalezza. La prova del nove è nell’Allegro con spirito, dove tutti i passaggi sono netti, nitidi; in particolare, è incredibile il modo in cui riesce a scaricare l’energia delle mani sui tasti, agitandole in maniera velocissima e quasi sfiorando la tastiera, così da ovattare il suono in passaggi di virtuosismo a fior di lama. Insomma, genera quasi dei vapori sonori, che in Čajkovskij, naturalmente, sono bene a casa. La cadenza è tutta giocata su volumi e velocità impressionanti. Alla fine del I movimento, infatti, il pubblico si trattiene a stento dall’applaudire. L’Andantino semplice (II) è ottimamente concertato, ancora, dalla Mälkki, che imposta un’agogica atta a favorire l’espansione sentimentale dell’orchestra, che sorregge la melopea del pianoforte. Qui Malofeev spagina tutte le dolcezze di cui è capace la sua sensibilità sonora della tastiera, dai trilli, argentei e pulitissimi, alle sfumature timbriche dei pedali, come pure alle velocità di quella sorta di intermezzo in toccata che interrompe il flusso etereo dell’Andantino. L’Allegro con fuoco (III) è realmente tale. La direttrice dà il giusto abbrivio agogico all’orchestra, che galoppa accanto all’interprete (si pensi, in particolare, alla coda finale), in un turbinio di arditezze virtuosistiche. Gli applausi, alla fine, sono fragorosi: due i bis regalati, la trascrizione (di Pletnev) per pianoforte della ‘Danza Russa: Trepak’ de Lo schiaccianoci, quindi ancora Čajkovskij, accompagnata da Islamey di Balakirev. (Malofeev, infatti, ama regalare a mo’ di bis trascrizioni per pianoforte dai balletti čajkovskiani: nel succitato concerto scaligero toccò all’Andante maestoso, sempre da Lo schiaccianoci).
La seconda parte del concerto vede una splendida esecuzione del Concerto per orchestra BB 123 (SZ 116) di Béla Bartók. Si tratta di un pezzo che impegna non poco il direttore e gli strumentisti, soprattutto nelle sue pieghe più singolari, dov’è necessario tirar fuori il colore più opportuno. E la Mälkki lo fa, come s’è potuto notare, per esempio, nel Gioco delle coppie, dove la direttrice sa dosare bene la spinta coreutico/ritmica, modulandola con una malinconia di fondo che colora tutto il passaggio. Attentissima, ancora, la direttrice nel dosare la tavolozza allucinata dei colori di Elegia, che svanisce e quasi resuscita fra sussulti. Dopo l’Intermezzo interrotto (con quella ironica citazione della Settima di Šostakovič), il Finale scalcia fino a un parossismo di ritmo e massa orchestrale, che chiude il tutto. Gli applausi suggellano un eccellente concerto.