Da Chicago a Firenze, da Muti a Gatti
di Francesco Lora
Soli pochi giorni hanno separato, a Firenze, due concerti di valore perentorio: da una parte quello di Riccardo Muti con la Chicago Symphony Orchestra, per Wagner, Hindemith e Prokof’ev; dall’altra quello di Gatti con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, per Mahler.
FIRENZE, 20 e 25 gennaio 2020 – Per ormai secolare tradizione, la Chicago Symphony Orchestra è la più tedesca tra le compagini strumentali statunitensi: tellurico e splendido scoppio della sezione degli ottoni – forse la più celebrata al mondo – in diretta competizione con quelle di Berlino, Dresda e Vienna; dialogante forbitezza dei legni; una sezione d’archi che sembra incrementare la trasparenza quanto più vada a cercare corpo e risonanza. Dal 2010 ne è direttore musicale Riccardo Muti, che l’ha raccolta dopo quasi quarant’anni di lavoro e lavorazione con i predecessori Georg Solti e Daniel Barenboim: ed ecco che il porgere, il suono, l’identità si sono fatti via via meno germanici, meno muscolari, meno intenti alla formidabile esibizione di materia e tecnica. Con Muti i professori di Chicago hanno scoperto il proprio lato latino: più morbidezza, più cantabilità, più varietà di colori in una scala agogica pur non necessariamente tesa da un virtuosistico estremo immaginabile all’altro; e i medesimi entusiasti professori, scaduto il contratto del maestro, sono riusciti a strappargli almeno un altro po’ di cammino insieme, almeno fino al 2022. Per festeggiare da un lato all’altro dell’Atlantico, orchestra e direttore hanno da poco intrapreso l’ultima delle loro memorabili tournée in Europa: 9-23 gennaio.
Si morda la lingua chi si lamenta poiché le date italiane sono state soltanto tre: quel leo rugiens di Vienna, roccaforte di Muti e capitale della musica, ne ha avute altrettante, e una sola ne hanno avuta Colonia per la Germania, Parigi per la Francia, Lussemburgo per il suo Stato e Lugano per la Svizzera. Al Teatro di San Carlo di Napoli, il 19 gennaio, dei tre programmi è stato eseguito quello che non si è potuto ascoltare nemmeno a Vienna: la suite da Romeo e Giulietta di Prokof’ev e la Sinfonia n. 9 di Dvořák (ma è anche vero che nessun’altra città, in Europa, ha goduto del programma di due tra le serate viennesi: la Messa da Requiem di Verdi). Al Teatro alla Scala di Milano, il 22 gennaio, il programma verteva invece su una silloge meno popolare e assai ricercata: l’Ouverture dal Fliegende Holländer di Wagner, la Sinfonia Mathis der Mahler di Hindemith e la Sinfonia n. 3 di Prokof’ev. Poi c’è il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: anche quest’anno esso vanta la più impressionante stagione concertistica che una fondazione lirica – l’Accademia nazionale di Santa Cecilia è un caso a parte – possa impaginare in Italia. Non contento di sé, con qualche settimana di preavviso esso ha aggiunto al proprio cartellone un concerto straordinario, quello di Muti e della CSO, il 20 gennaio, bagnando il naso alla Scala e presentando, con due giorni di anticipo, lo stesso programma in pregustazione a Milano.
Un programma il quale, a ben leggerlo e ascoltarlo, è percorso da un fil rouge. L’ouverture wagneriana è operistica di per sé; ma lo sono anche le due sinfonie: quella di Hindemith condivide abbondante materiale con l’opera omonima, mentre quella di Prokof’ev fa altrettanto con il suo terribile Ognenny angel. Sulle tre partiture cala poi un fil rouge esecutivo: quello di Muti che chiede alla sua spettacolosa orchestra più di cercare che di esibire, più di moderarsi che di esplodere, e di seguirlo sempre nel rigore della battuta, onde convertire la pagina scritta in suono obbediente ai segni – forse prima ancora che al sentire – dei rispettivi autori. Questo è il Muti dell’ultima maturità, così diverso da quello dei passati decenni. Diverso anche quando sceglie, come bis, l’Intermezzo da Fedora di Giordano, altra pagina sinfonica che viene dall’opera: egli la dirige con abbandoni voluttuosi che non solo completano lo spettro espressivo del programma, ma anche rivelano l’artista severissimo in vena di allargamenti, confidenze, tenerezze, scorci impensati.
Firenze e il suo teatro sono, per Muti, sempre un ritorno a casa. E quella casa – anche quando non c’è Muti: ma tornerà nel 2022, si dice, per un Simon Boccanegra – vive prospera: il concerto della CSO si è inserito tra le meritorie recite di Risurrezione di Alfano, mentre il 26 gennaio il MMF ha dato un altro superbo concerto al cartellone nazionale. Il programma consisteva nella Sinfonia n. 6 di Mahler, l’unica tralasciata da Fabio Luisi nell’integrale del 2018/19 (un’indisposizione portò al totale ripensamento della serata). A dirigerla è stato Daniele Gatti: tutta a memoria, come può permettersi di fare il sottile intenditore mahleriano in questione; tutta senza il filtro di un leggio tra la sua idea e la sferzante, metallica Orchestra del MMF. Una lettura solenne, pensosa, indugiante, spazialmente vorace – per così dire – del tempo concessole intorno; una lettura dove il fuoco tragico getta vampate possenti e ha tuttavia un gesto pudico, dolente, toccante, veritiero, introverso; una lettura condotta da un’interprete che l’orchestra stessa, spento l’ultimo suono, non riesce più a smettere di applaudire.