L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Le minacce, i fieri accenti 

di Roberta Pedrotti

Sotto la minaccia della protesta prennunciata ormai da mesi in loggione, La forza del destino inaugura il Festival Verdi in un clima non proprio sereno. Il cast, invero lussuoso, esprime luci e qualche ombra sotto la direzione accuratissima di Roberto Abbado e con la regia insipida di Yannis Kokkos. Eccezion fatta per i contestatori organizzati, il teatro applaude con generosità e decisione.

PARMA, 22 settembre 2022 - Innanzitutto la cronaca: la serata inaugurale del Festival Verdi si è svolta regolarmente, cosa non scontata viste le belligeranze dei mesi scorsi, sfociate poi solo nelle prevedibili contestazioni al presentarsi del maestro Abbado sul podio e al lancio finale di bigliettini, molti dei quali in dialetto e dai toni accesi. La ragione del contendere era, invero, incomprensibile a molti non parmigiani e, anche in città, ha preso presto la piega della becera bega di cortile: come ormai da cinque anni almeno, una produzione del Festival Verdi è realizzata con i complessi del Comunale di Bologna e non v'è nulla di strano, trattandosi di almeno tre produzioni d'opera e diversi concerti che non potrebbero fisicamente essere realizzati con un solo coro e una sola orchestra. Quest'anno, però, si è trattato dell'inaugurazione e pare sia stato percepito come un oltraggio da far impallidire le smanie vendicative di Don Carlo di Vargas. Ricordiamo, invece, che il Coro del Regio di Parma (come capita nella maggior parte dei casi se non sempre con i teatri di tradizione) non è stabile e organico al teatro, bensì una cooperativa esterna: se nella gestione della stessa e nei suoi rapporti con il Regio sussistono dei problemi, sarebbe opportuno parlarne seriamente, ché i diritti e la dignità dei lavoratori sono interesse di tutti. Anzi, sarebbe cosa buona e giusta se si spostasse l'attenzione dalla caciara alle concrete questioni amministrative e contrattuali. Così, invece, a noi è giunta solo la minaccia di non permettere ai colleghi bolognesi, ai solisti, alle maestranze tutte di svolgere il loro lavoro, agli amanti di Verdi venuti anche da lontano di poter godere l'opera. Talvolta alcuni loggionisti parmigiani sembrano amare più la propria fama che l'opera e Verdi, trasformandosi inconsapevolmente da eredi di una tradizione di passione a tristi caricature di sé stessi.

Ecco allora che, puntuali, arrivano fischi e improperi da alcuni gruppi quando Roberto Abbado sale sul podio, ma sono anche molti gli applausi che lo sostengono, il maestro attacca i primi accordi vigorosi e la parola passa alla musica e al palcoscenico. Finalmente.

La tensione, purtroppo, è all'inizio evidente: il cast è di primissimo livello sulla carta, una locandina da grande capitale internazionale della musica, ma l'opera è pur sempre d'improba difficoltà, specie se ci si addentra nella tana del lupo con pressioni extra artistiche. Così, per esempio, Liudmyla Monastyrska non appare del tutto all'altezza della sua fama e della sua carriera: voce imponente, sì, ma un tantino dura e avara di sfumature, piuttosto refrattaria alla parola scenica verdiana. Soprattutto in una serata dedicata a Renata Tebaldi nel centenario della nascita, spiace non aver avuto una Leonora di Vargas più completa e convincente. Qualche segno di stanchezza lo accusa pure il Don Alvaro di Gregory Kunde ed è più che umano riscontrarlo: semmai aveva del miracoloso la freschezza con cui aveva affrontato il tour de force di pochi mesi fa a Bologna con Luisa Miller seguita da Otello. Kunde, però, è un fior di musicista e sa dosare le sue forze, sfoderare acuti sempre facili e squillanti e sfruttare, viceversa, qualche suono più velato per i momenti di dolore fisico (“Solenne in quest'ora”) o spossatezza emotiva. Un artista e un cantante intelligente, ma non più un ragazzino: dobbiamo abituarci a pensare che qualche serata di minore energia potrà capitare anche a “SuperGreg” Kunde.

Chi di energia ne ha da vendere è sempre il baritono Amartuvshin Enkhbat, che infatti trascina quella la maggior ovazione della serata con un'”Urna fatal”in cui non si sa se ammirare più la qualità del timbro, la ricchezza degli armonici, l'ampiezza della cavata, la capacità di legare mantenendo il mordente della parola. La parola, appunto: dotato di una voce di qualità superiore, il baritono mongolo dimostra anche di prestare sempre più attenzione al fraseggio e all'espressione. Come attore s'impegna ma, bisogna ammetterlo, non ha trovato nemmeno un regista che gli suggerisse granché. La regia di Yannis Kokkos non aiuta nemmeno Annalisa Stroppa, che ha tutte le carte in regola per essere una superba Preziosilla: ha una bella voce svettante e amministrata con tecnica sicura, è un'interprete gustosa e piccante al punto giusto, è una bella ragazza che in scena si sa muovere con disinvoltura, spirito e incisività. Se solo Kokkos non le facesse agitare la gonnella fra balletti e mossettine, avremmo una zingarella da manuale.

Da manuale è senz'altro il Melitone di Roberto De Candia, scorbutico quanto basta per centrare la misura di un personaggio che simpatico proprio non è, ma non deve nemmeno risultar sgradevole. In fondo anche lui è un essere umano, nella sua somma di difetti che non diventano mai caricatura ma si esprimono sempre in un intelligente canto nella parola.

Marko Mimica è un Padre guardiano che alla solennità patriarcale e quasi profetica preferisce una composta autorevolezza favorita dal timbro nobile di basso cantante; Marco Spotti è efficace nel cameo del rigido Marchese di Calatrava.

Segnalato il Trabuco di Andrea Giovannini (attore sempre attento anche ai più piccoli gesti), con la Curra di Natalia Gavrilan, il buon medico di Andrea Pellegrini e l'Alcalde di Jacobo Ochoa, ricordiamo anche gli interventi solistici degli artisti del coro del Comunale di Bologna. Questo, sotto la guida di Gea Garatti Ansini, ha dato ottima prova di sé con precisione, compattezza, cura delle dinamiche (molto belli i piani non solo nella “Vergine degli angeli”). Val la pena di sottolineare che il coro ospite è stato accolto nei camerini anche da un messaggio di in bocca al lupo e qualche dolcetto dai colleghi parmigiani: si è parlato di tanti veleni, ma per fortuna poi vince la solidarietà fra musicisti, non ci si fa la guerra ma si condivide un lavoro che è anche passione.

Questo si è percepito anche nella concertazione di Roberto Abbado, ben assecondato dall'orchestra bolognese, accuratissimo sin da una sinfonia dall'attacco perentorio (il teatro e la vita a volte son la stessa cosa: così doveva essere per la situazione in sala, così doveva essere per la drammaturgia dell'opera) e dal finissimo lavoro di dinamiche e rapporti timbrici, con un lavoro di rigori e rubati mai scontati e mai eccedenti dalla giusta misura che poi si è riscontrato nel bell'equilibrio di tutta l'opera. Si sa, il turbinio di eventi, ambienti, contrasti che segue i rocamboleschi inseguimenti di Leonora, Don Alvaro e Don Carlo per l'Europa mette a dura prova la coesione musicale e drammatica, tuttavia Abbado sa farne punto di forza senza esasperazioni, sottolineando la coerenza di questo affresco di dannazione e speranza, effimeri piaceri, sentimenti estremi, aneliti sublimi. Insomma, una metafora della vita in cui la Provvidenza è consolazione, ma la realtà è la spietata insensatezza del destino. Si parla spesso di Manzoni in relazione alla Forza del destino e di sicuro molte situazioni per personaggi si assimilano ai Promessi sposi, tuttavia pare qui che l'idea di fondo si avvicini più al pessimismo cosmico leopardiano, pur carezzato dal conforto della preghiera.

Perché allora, nonostante la gioia per la scampata bagarre e la possibilità di assistere lo spettacolo in relativa santa pace, questa Forza del destino non avvince come dovrebbe? In parte, l'abbiamo detto, perché l'atmosfera di partenza non era delle più propizie alla concentrazione serena; in parte perché la nuova produzione firmata da Yannis Kokkos non ha centrato il bersaglio limitandosi a una recitazione stereotipata, quando non rinunciataria, con costumi in stili diversi e indefiniti, sagome sbilenche di rassicurante modernariato. L'unico guizzo è il movimento di luci (sempre assai bravo Giuseppe Di Iorio), proiezioni (Sergio Metalli), coreografie (di Marta Bevilacqua) fra la pittura di Ensor e l'espressionismo a Weimar per il blocco finale del terzo atto. Nulla di particolarmente originale, ma almeno è qualcosa.

Alla fine, si paga giusto l'ultimo dazio alla frangia di irriducibili che in loggione non vogliono perdonare ad Abbado d'aver diretto “l'invasore straniero”, ma la maggior parte del teatro risponde con applausi calorosi e generosi consensi per uno spettacolo che con le repliche potrà senz'altro crescere in un clima più rilassato.


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