Amati, Violetta
Lastricata di buone intenzioni, la via della Traviata prodotta da OperaLombardia vaga facendo molto parlare di sé ma senza raggiungere una meta convincente, o che quantomeno susciti un dibattito davvero interessante.
BRESCIA, 18 dicembre 2022 - A chiusura di una stagione OperaLombardia che ha inanellato titoli capitali nell'immaginario di ogni melomane (a Brescia è mancata all'appello solo la più rara: Napoli milionaria di Rota) e che da un'eccellente Norma [Brescia, Norma, 30/09-02/10/2022] hanno condotto alla piena soddisfazione generale per Don Giovanni [Como, Don Giovanni, 01/10/2022] e La Gioconda [Cremona, La Gioconda, 06/11/2022], si è giunti a una Traviata non meno attesa. Attesa per la portata dell'opera in sé, ma anche per il gran parlare che ha accompagnato il progetto registico di Luca Baracchini, vincitore con il suo team (Francesca Sgariboldi per le scene, Donato Didonna per i costumi e Gianni Bertoli per le luci) di un concorso per l'allestimento del capolavoro verdiano. Purtroppo si è trattato di uno di quei casi in cui la montagna non solo partorisce un topolino, ma dà anche adito a qualche più profonda perplessità.
L'idea di partenza non era peregrina: per dare sostanza oggi alla denuncia dello stigma sociale verso Violetta, all'ipocrisia e al rifiuto di Germont e alla lacerazione dell'anima della protagonista, si pensa di rappresentarla come donna transessuale costretta a fare i conti con l'identità impostale alla nascita, con il suo percorso di transizione e con la reazione del mondo che la circonda, sullo sguardo proprio e altrui. Si può fare, se fatto bene, con coraggio, senza stereotipi. Il problema è che da un lato il coraggio – o forse un livello tecnico adeguato, vedi anche il fastidiosissimo faro riflesso nello specchio per tutto il terzo atto – è venuto a mancare, dall'altro alcuni effetti facili hanno saputo un po' troppo di cliché fine a sé stesso, cosa che ha procurato qualche mugugno di superficie, ma nessuna seria riflessione. La maggior parte dello spettacolo si svolge, in realtà, come la più tradizionale delle Traviate in abiti ottocenteschi o contemporanei: Violetta attacca “Sempre libera” brandendo un bicchiere alcolico e lo conclude incontrando il Barone o un qualche cliente in attesa; a casa di Flora si fanno le orge con tacchi a spillo e frustini (e si strapazza Alfredo nella finta corrida, come già – e meglio – Decker a Salisburgo); il rapporto fra Germont padre e figlio è condito di ceffoni dati o minacciati. “Cose note, cose note” e nulla da segnalare sul piano della recitazione, con il tema di base sviluppato in solo tre momenti: nel preludio all'atto primo promette bene lo specchiarsi del mimo maschio (Giovanni Rotolo, bravissimo) che non si riconosce e rinasce come Violetta, nel secondo atto l'invito “Amati” scritto sullo specchio dalla stessa proiezione maschile durante “Amami Alfredo” (con quella luce rossa che fa grand'effetto, ma resta una trovata isolata), nel terzo, e qui scivoliamo in un gratuito un po' sconsolante, l'evocazione dell'intervento ai genitali con Violetta donna che brandisce un coltello e Violetta uomo che (di spalle) si cala le mutande. Basta questo a indagare un tema così profondo e delicato? Non mi sembra. Anzi, alla fine il rischio è proprio di indispettire chi su questi temi ha una visione parziale e superficiale basata su rigide categorie tradizionali senza offrire spunti di riflessione, mentre non si ritrova in questa visione nemmeno chi ha una più ampia contezza delle sfumature di maschile e femminile nella distinzione fra orientamento sessuale, identità e ruoli di genere. Bisognava forse osare di più e meglio, oppure non intraprendere questa strada in cui anche le migliori intenzioni possono arenarsi in un gratuito “se ne parli, purché se ne parli”.
E difatti, se l'attenzione si concentra tutta sulle mutande di Rotolo o sulle zingarelle sadomaso, si può perdere di vista anche una coesione musicale che, di fatto, è venuta a mancare. Dalle recite precedenti, protagonista Francesca Sassu, sono arrivate unanimi testimonianze di tempi molto spediti, mentre in questa recita pomeridiana a Brescia, con la Violetta di Cristin Arsenova l'agogica è risultata tendenzialmente assai rilassata (un po' più incalzanti del solito solo alcune pagine, come “Di Provenza” e “Addio del passato”). Che Enrico Lombardi sul podio abbia voluto il più possibile assecondare le interpreti è comprensibile, ma il risultato, per quel che abbiamo sentito, ha patito in coerenza, fra momenti di assoluto rigore testuale (anche a costo di sacrificare un po' di respiro, Gatti docet) e altri molto più liberi nell'articolazione. Bene, benissimo che si cerchino variazioni e cadenze per le riprese integrali, ma allora spiace un po' che sfugga qualche parlato e sottolineatura di tradizione, in generale che la concertazione appaia spesso calligrafica, con alcune ottime intenzioni, ma non raggiunga, di pari passo con l'erratica regia, una sua propria decisa identità. Questione di esperienza, probabilmente, e di un gioco di squadra che non pare aver allineato tutti gli elementi giusti per un affiatamento virtuoso. Ci sarà tempo per rifarsi, si merta "un avvenir migliore".
Se il coro preparato da Massimo Fiocchi Malaspina fa molto bene e anche l'orchestra dei Pomeriggi musicali risponde sollecita alle indicazioni di Lombardi con suono pulito e preciso, la costellazione dei comprimari brilla di luci assai fioche: Reut Ventorero (Flora Bervoix), Sharon Zhai (Annina), Giacomo Leone (Gastone), Alfonso Michele Ciulla (Barone Douphol), Alessandro Abis (Marchese d’Obigny), Nicola Ciancio (Dottor Grenvil), Ermes Nizzardo (Giuseppe) e Filippo Quarti (Domestico di Flora / Commissario). Vincenzo Nizzardo, Giorgio Germont, ha una buona solidità vocale, sebbene risulti un po' generico sul piano espressivo. Valerio Borgioni, Alfredo, ha un buon materiale ma non è parso in ottima forma, con una tendenza a schiacciare il passaggio in suoni nasali che hanno limitato anche la fluidità del legato. Non trabocca di personalità la Violetta di Arsenova, che fin da subito mostra il tallone di Achille di un registro acuto acidulo e non facilissimo (meglio sarebbe stato non lanciarsi nel Mi bemolle), per rinfrancarsi con una buona gestione di una delicatezza lirica che, tuttavia, nell'ultimo atto fa emergere un po' di vibrato.
L'accoglienza del pubblico è cordiale ma non calorosissima in corso d'opera, mentre gli applausi finali segnano punte di generoso entusiasmo. Un solo dissenso si consuma in pochissimi istanti: una signora borbotta ad alta voce contro il mimo doppio maschile di Violetta ("rivestiti!") ma viene immediatamente zittita da più parti della sala. Questa Traviata non scuote e non fa nemmeno un po' di scandalo: Verdi non ne sarebbe stato contento, credo.