L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Agrodolce viennese partenopeo

di Luigi Raso

Dedicato a Schubert e Mozart, il concerto di Natale che inaugura la stagione sinfonica del Teatro di San Carlo desta qualche perplessità.

NAPOLI, Il concerto di Natale, nonché inaugurazione della Stagione di Concerti 2023-24 del Teatro di San Carlo, volge sguardo e orecchio all’Austria, a Salisburgo e a Vienna. Tra la capitale imperiale e il principato di Salzburg si incrociano le vite e i destini di Schubert e Mozart, i protagonisti di questo programma festivo: a Vienna viene concepita sia quello che, insieme al Requiem, è il capolavoro sacro del compositore salisburghese, la Grande Messa; a Vienna vagabonderà, tra il 1797e il 1828, l’anima delicata di Franz Schubert.

Per questa inaugurazione Dan Ettinger, direttore musicale del San Carlo, sceglie la giovanile Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore, D 485 del “viennesissimo” Franz Schubert e un capolavoro assoluto della musica sacra di ogni tempo, la Grande Messa in do minore per soli, coro e orchestra, K 427 del salisburghese Wolfgang Amadeus Mozart.

La Quinta di Schubert, composta sul finire del 1816 e dalla chiara discendenza mozartiana, ha un’evidente articolazione musicale improntata a una fresca fluidità, a una diffusa levigatezza dei temi melodici: se la matrice è mozartiana, la delicatezza e il lirismo dei temi sono già riconducibili ai vertiginosi capolavori dello Schubert più maturo.

La Sinfonia è dominata da una serafica levità che permea i suoi quattro movimenti ed è proprio da questa caratteristica che muove i passi la concertazione di Dan Ettinger. Quella del direttore israeliano è una visione esecutiva e interpretativa diametralmente opposta a quella che, dopo la recente e poco convincente Eroica di Beethoven (qui la recensione), ci saremmo aspettati: se in quella occasione ci è parsa eccessiva l’energia sprigionata dalla concertazione, scabro il suono orchestrale, stasera la lettura della sinfonia di Schubert appare, in definitiva, orientata verso un passo e un contegno compassato.

Sin dal primo movimento - Allegro - si nota e apprezza un’estrema fluidità del discorso musicale, la buona forma dell’Orchestra del San Carlo, la tendenziale precisione dell’insieme; ma con il trascorrere delle battute, ad eccezione della ripresa del tema iniziale variato in piano, ci si accorge che latita il fraseggio e, in particolare, una spiccata visione interpretativa. Questa convinzione si rafforza con l’Andante con moto del secondo movimento, nel quale la grazia e la delicatezza dei temi di Schubert brillano di luce propria. Da questo momento Ettinger dà la sensazione di limitarsi ad assicurare il loro ordinato fluire e a garantire il corretto funzionamento della Sinfonia; ma c’è poco altro oltre all’ordinaria amministrazione di dinamiche e alla ricerca di equilibrio tra le sezioni orchestrali.

Alla fine, si è appagati dall’intrinseca bellezza delle melodie, degli sviluppi del giovane Schubert, ma si resta ben poco coinvolti dalla visione proposta dal concertatore.

Composta a Vienna tra agosto 1782 e maggio 1783, incompiuta, eseguita per la prima volta alla Peterkirche nell’agosto del 1783 - a un anno dal matrimonio tra Mozart e Constanze Weber (Vienna, Duomo di Santo Stefano, 4 agosto 1782) - e nata per onorare il “mantenimento di un voto” (non è chiaro se per aver superato le difficoltà e il veto paterno di sposare Constanze oppure per aver ottenuto la di lei guarigione), opera monumentale nelle intenzioni, ma incompleta alla resa dei fatti, la Grande Messa in do minore per soli, coro e orchestra, K 427 è da considerarsi un monumento della architettura musicale sacra di ogni tempo. Benché Mozart non abbia portato a termine l'intera composizione, questa Messa è un esempio di stupefacente e poderosa polifonia barocca, figlia della lezione di J.S. Bach e G.F. Haendel, ma ad aleggiare sulla partitura è il senso di metafisica religiosità, che potremmo definire “aconfessionale” per purezza e profondità, tipica di tante composizioni sacre (e non) del genio di Salisburgo.

Sgombrato il campo da limitati e sintetici cenni storici su questo monumento musicale, l’analisi dell’esecuzione e interpretazione musicale di stasera ci consegna ben più che qualche perplessità.

A giudicare dall’esisto della prova del Coro, non si è rivelata felice la programmazione dell’esecuzione della Grande Messa immediatamente dopo un lungo periodo di prove e numerose rappresentazioni di Turandot: si avverte, sin dal Kyrie introduttivo, che gli artisti hanno ancora ben salda “in gola” Turandot, ossia quel tipo di vocalità che la partitura di Puccini richiede loro, molto distante, per stile ed emissione, dalla vocalità raffinata - adusa ad abbellimenti, a emissioni quasi soffuse - richiesta, invece, dall’opera di Mozart. Rispetto alla precedente Sinfonia n. 5 di Schubert, Dan Ettinger per la Grande Messa opta per una conduzione più energica, più corrusca nelle dinamiche: ciò determina un’accentuazione dell’intensità dell’emissione vocale da parte del coro, con conseguente profluvio di sonorità ruvide e aspre. Affidata in questa occasione alla cura del Maestro aggiunto Vincenzo Caruso, la compagine a doppio coro, considerate le contingenze che hanno preceduto l’esecuzione della partitura di Mozart, si districa tra la complessa polifonia con onesto professionismo. Resta però il rammarico per l’esecuzione di un'opera che avrebbe meritato preparazione ben più approfondita e, soprattutto, di non essere inserita in programmazione tanto eterogenea.

In questo frangente la concertazione di Ettinger punta a tenere le fila di un’orchestra disciplinata e del Coro, per il quale, dopo l’ultima encomiabile prova (qui la recensione), si torna a notare l’eccessivo squilibrio dei volumi tra la sezione maschile e quella femminile: quest’ultima, infatti, appare troppe volte poco consistente e dal suono poco rifinito. Una partitura come la Grande Messa, fondata in gran parte sul Coro non è prodiga di misericordia verso imprecisioni e asprezze.

Ma a far Grande la Messa in do minore di Mozart devono esserci anche solisti, soprattutto per la corda sopranile, di primo rango.

Il quartetto di stasera è aperto dal soprano statunitense Nadine Sierra: se il sublime solo del Kyrie introduttivo non convince del tutto per precisione, fraseggio, e, soprattutto, per un registro grave alquanto sfuocato, Et incarnatus est, nella melodiosità della siciliana e nel dominio del virtuosistico vocalizzo, è molto più persuasivo. Il secondo soprano, Ana Maria Labin, denota invece imprecisioni nell’articolazione della linea di canto e una diffusa asprezza timbrica (ad esempio, in Laudamus te) derivante da un’emissione poco cesellata e controllata.

Nella stringatezza delle rispettive parti, Attilio Glaser, tenore, e Adolfo Corrado, basso, sfoggiano voci ben timbrate, buona tecnica di emissione e fraseggio appropriato.

Al termine, la vista della scintillante sala del San Carlo ci restituisce un’immagine che riempie occhi e cuore di gioia natalizia: teatro gremito dalla platea fino alla balconata di VI fila; tutti gli artisti vengono salutati da un applauso caloroso ma non molto prolungato.


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