L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Regine in trappola

di Luigi Raso

Maria Stuarda, la seconda tappa della trilogia Tudor a Napoli con la direzione di Riccardo Frizza e la regia di Jetske Mijnssen, mette in evidenza le protagoniste Pretty Yende e Aigul Akhmetshina.

NAPOLI, 26 giugno 2024 - Nel 1834 la rissa sul palcoscenico tra le due primedonne Giuseppina Ronzi De Begnis, che interpretava Maria Stuarda, e Anna Del Sere, Elisabetta, lo zelo della censura borbonica e, molto probabilmente, lo sbigottimento per il ricordo dell’offesa arrecata alla lontana parente scozzese nella giovane devota e pia regina Maria Cristina di Savoia, consorte del re Ferdinando II di Borbone, fecero abortire alla prova generale la prima assoluta al San Carlo dell’opera Maria Stuarda: come racconta, con la consueta dovizia di particolari storici e con prosa intrigante Sergio Ragni nel saggio La storia tribolata d’un’opera (e d’una regina) incluso nel programma di sala, Maria Malibran, impegnata al Teatro San Carlo nel dicembre del 1834, si interessò e appassionò all’opera tanto da proporla alla direzione del Teatro alla Scala dove finalmente andò in scena, dopo un anno dal mancato esordio napoletano, il 30 dicembre del 1835. E così il San Carlo perse la prima assoluta di uno dei capolavori di Gaetano Donizetti; ventitré anni dopo, l’ottusità di quella stessa censura borbonica indispettì a tal punto Giuseppe Verdi che, dopo controversie giudiziarie, ritirò il suo (originario) Gustavo III, per metterlo in scena al Teatro Apollo di Roma il 9 gennaio del 1858.

Maria Stuarda, secondo pannello del polittico delle cosiddette “tre regine”, va in scena al San Carlo a un anno da Anna Bolena (qui la recensione) nell’allestimento firmato dalla regista olandese Jetske Mijnssen, coproduzione tra Teatro di San Carlo, Dutch National Opera e Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia.

La scenografia di Ben Baur racchiude il dramma psicologico, prima ancora che politico, di Mariae d Elisabetta all’interno di un ambiente angusto, essenziale, claustrofobico: in un limitato volume scenico, unico per tutta l’opera, il dramma delle regine, magnificamente vestite dai costumi firmati da Klaus Bruns che rimandano fedelmente alla moda elisabettiana, è indagato dalla drammaturgia di Luc Joosten e dal disegno registico di Mijnssen.

Come già si è avuto occasione di notare in Anna Bolena, uno degli elementi distintivi delle regie della Mijnssen è l’attenzione alla psicologia dei personaggi. In questa Maria Stuarda, le rivali sono presentate non solo come figure storiche, ma come donne complesse e vulnerabili, intrappolate nella rete del loro passato, solcate e divise da molteplici sentimenti, pervase da insanabili conflitti relazionali e interiori. L’unico elemento scenico permette di focalizzare l’attenzione proprio sulle dinamiche tra i personaggi del dramma; peccato, però, che la regista ceda troppo spesso alla tentazione di farcire l’essenzialità dello spazio con mimi, controscene, concisi passi di danza - curati da Lillian Stillwell e affidati all’eccellente  Balletto del Teatro di San Carlo - che, privi di necessità drammaturgica, per chi scrive, danno l’impressione di voler colmare momentanei vuoti d’idee.

Trovate registiche che in questo spettacolo tuttavia non mancano, seppur mutuate, come la citazione di Maria sposa bambina, dalla biografia di Stefan Zweig e dal confronto finale tra le due regine nel dramma di Schiller, assente nell’opera di Donizetti. Veder recitare assieme Maria ed Elisabetta nel finale dell’opera fa evaporare dalla scena del supplizio tutta quella magistrale e potente aura di intima solitudine che Donizetti imprime al canto straziato di Maria. Nel limitato spazio scenico, illuminato soltanto da brevi e intensi riflessi di luce bianca (di Cor van den Brink), Mijnssen proietta angosce, timori e allucinazioni di Maria ed Elisabetta, vi riversa il loro passato. Sono idee registiche che si traducono in immagini che scorrono però troppo rapidamente e senza un filo narrativo lineare, finendo così per affastellarsi e, siccome sono risolte in controscene, a distrarre e disorientare lo spettatore. La recitazione dei cantanti, le interazione personali sono ben curate, pur non evitando, in particolare per Elisabetta, qualche enfatizzazione gestuale di troppo.

Uno spettacolo, in definitiva, che appare come un duplicato (per impianto scenografico, con l’aggiunta di un corredo di elementi e trovate non essenziali alla drammaturgia) dell'Anna Bolena firmata dalla medesima regista.

Stessa regista, stesso direttore: Riccardo Frizza, ospite lo scorso anno del San Carlo per Anna Bolena, dà una lettura concreta di Maria Stuarda, che mira al nocciolo della teatralità: quindi tempi spediti, tensione drammatica ben calibrata tra le scene; tuttavia, l’asciuttezza e la concretezza della narrazione, non corrisponde sempre ad una adeguata cura dei volumi. Si nota, in più di qualche occasione (soprattutto nel duetto tra Maria e Leicester “Da tutti abbandonata” e, in particolare, nella preghiera finale di Maria “Deh, tu di un’umile preghiera”), un eccesso di decibel dell’orchestra a discapito del palcoscenico; non sempre riscontriamo la dovuta attenzione alle esigenze dei cantanti, talora, come si dirà, alquanto in difficoltà.

Nel complesso buona la prova del Coro del San Carlo, affidato alle esperte cure di Fabrizio Cassi: incisivo, puntuale e dal bel colore in apertura d’opera e nel finale, benché coinvolto, suo malgrado e anche per l’infelice disposizione in scena, insieme all’orchestra in quell’ispessimento eccessivo del volume che quasi schiaccia la struggente preghiera cesellata (molto bene) da Pretty Yende.

Ed è proprio il soprano sudafricano a meritare, da parte di chi scrive, encomi per il suo debutto nella insidiosa parte di Maria Stuarda. Pretty Yende appare ben calata nella parte, tanto dal punto di vista strettamente vocale, quanto da quello - che sicuramente sarà affinato e ancor meglio metabolizzato in futuro - psicologico. La vocalità, rispetto alle precedenti performance sancarliane, appare irrobustita, molto ben emesse e proiettata, dal timbro di bella pasta; molto curato il legato, tendenzialmente pulite e sicure le colorature. Quanto al versante interpretativo, il soprano è efficace nel delineare una Maria Stuarda dolente ma non dimessa, energica, incisiva nel celebre duetto con Elisabetta: c’è attenzione alle sfumature del testo, al fraseggio e, in particolare, a garantire una linea di canto fluida ed espressiva.

Un debutto, questo di Pretty Yende nei panni di Maria Stuarda, covato sotto la cura di una grande insegnante, la belcantistica par excellence Mariella Devia che, alla prova dell’ascolto, ha dato i suoi frutti: la Yende dimostra di aver ben interiorizzato i suggerimenti della Devia, modellando un’interpretazione nella quale la tecnica è ancillare ad una chiara visione interpretativa.

Impressionano i mezzi e il bellissimo colore del timbro dell’Elisabetta della giovane Aigul Akhmetshina, astro, ad oggi ben più che nascente, della corda mezzosopranile: buona organizzazione vocale, eccellente controllo delle colorature, si impone sin dall’esordio di “Sì, vuol di Francia il rege... Ah, quando all’ara scorgemi” per la debordante e magnetica vocalità. In magnetismo vocale che, però, (ancora) non trova adeguata corrispondenza in quello interpretativo: la maturazione della personalità e del personaggio porterà sicuramente la giovane Akhmetshina ad affinare e cesellare anche questo aspetto. Molto efficace, ad ogni modo, lo scontro verbale con Maria Stuarda, laddove il mezzosoprano russo si dimostra molto bravo nel difendersi dalle ingiurie che la rivale le rivolge.

Malgrado le esigue battute che Donizetti riserva al personaggio di Anna Kennedy, Chiara Polese, ex allieva dell’Accademia Teatro di San Carlo, si fa notare e apprezzare per la pastosità del timbro, la proiezione, la musicalità e per una recitazione sempre ben calibrata e aderente al momento teatrale.

Francesco Demuro è un Roberto Leicester appassionato, tendenzialmente ben cantato, sebbene denoti qualche forzatura nella linea vocale, difficoltà probabilmente accentuate, come si è scritto in precedenza, da un accompagnamento orchestrale non molto propenso al sostegno del canto. Il Leicester di Demuro, ad ogni modo, risulta ben definito e sa dare la giusta intensità agli accenti consolatori per l’amata Maria Stuarda.

Autorevole e umanissimo è Carlo Lepore, basso dalle spiccata e raffinata musicalità e intelligenza interpretativa, imperniata, in primo luogo, sul giusto peso da dare a parole e accenti, sui quali la grande esperienza dell’artista fonda una vocalità solida che gli consente di tratteggiare un teatrale Talbot. Lepore trova accenti misericordiosi da sacerdote nel duetto “della confessione” con Maria Stuarda che rendono il suo personaggio un gigante di genuina umanità. Perfido, deciso e ruvido è l’efficace Lord Guglielmo Cecil del sempre affidabile Sergio Vitale.

Al termine dello spettacolo, la terza rappresentazione di questa produzione, applausi per tutti, con punte di caloroso apprezzamento per la convincente prova di Pretty Yende.

L’appuntamento per l’ultimo tassello della trilogia delle regine Tudor di Donizetti è per luglio 2025, quando andrà in scena Roberto Devereux, con il binomio Riccardo Frizza - Jetske Mijnssen alla direzione musicale e alla regia.


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