L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ritorno alla Scala, timido Massenet

di Francesco Lora

Dopo quarantaquattro anni di latitanza, Werther ha riguadagnato la scena milanese, in uno spettacolo però di mero disimpegno tra la direzione di Alain Altinoglu, la regìa di Christof Loy e l’apporto canoro di Benjamin Bernheim e Victoria Karkacheva.

MILANO, 27 giugno 2024 – Sembrerà incredibile, ma Werther di Massenet mancava al Teatro alla Scala dal 1980, dopo che un punto fermo era stato lì lasciato da Alfredo Kraus, come protagonista, e da Georges Prêtre, come concertatore. Il rimedio era già stato predisposto dieci anni fa sotto la sovrintendenza di Alexander Pereira: l’opera doveva essere eseguita in forma di concerto, ma le due serate saltarono a séguito del doppio passo indietro delle vedettes, ossia Prêtre stesso, novantenne e ammalato, e Roberto Alagna, chiamato a ricomporre i rapporti col teatro milanese dopo le contestazioni nell’Aida del 2006, stupito di essere stato messo in cartellone nonostante impegni già assunti altrove e soprattutto turbato dai fischi che i colleghi continuavano a buscarsi nella sala piermariniana. Quel debito è stato ora pagato dalla sovrintendenza di Dominique Meyer, sensibile alla questione oltre il caso di Massenet: Norma di Bellini, assente dal 1977, tornerà nella stagione prossima, mentre Semiramide di Rossini, assente dal 1962-63, tornerà in quella successiva. Peccato, tuttavia, che in tali sei recite di Werther, dal 10 giugno al 2 luglio scorsi, l’assortimento degli ingredienti – ora limitati, ora svogliati, ora sovrastimati – abbia dato luogo a uno spettacolo di mero disimpegno, tutt’altro che destinato agli annali.

A deludere è anzitutto, nella parte eponima, Benjamin Bernheim, che pure sarebbe l’odierno diamante del tenorismo francese. L’acustica della Scala, sempre ingrata a dispetto di ogni apportata miglioria, depaupera il timbro da lui consegnato con fragranza al disco, mentre la natura e la tecnica annaspano entro una sala tanto vasta, costringendo lo spettatore a tendere l’orecchio sia quando il canto spiegato non matura risonanza, sia quando i pianissimi, non “correndo”, restano suoni senza nerbo. Accurato lo stile, espressivo il porgere, indiscutibile la pronuncia, per carità, ma è la materia prima a latitare, come in recenti allestimenti italiani non era affatto avvenuto con i Werther di Juan Diego Flórez (sperimentale al Comunale di Bologna), di Piero Pretti (professionale alla Fenice di Venezia) o di Dmitry Korchak (fenomenale al Filarmonico di Verona). Quel ch’è peggio, a fianco di un protagonista in difficoltà manca una Charlotte che possa infervorarlo o compensarlo. Singolare è lo stato di carriera di Victoria Karkacheva, promettente nel canto e avvenente nella presenza, la quale attualmente alterna, su importanti scene europee, ruoli di primissimo piano con altri del comprimariato; un esempio: il prossimo ottobre sarà protagonista in Carmen di Bizet al San Carlo di Napoli, ma lo scorso aprile è stata non più che la Badessa in Suor Angelica di Puccini all’Opera di Stato Bavarese. Il presente suo debutto alla Scala, pieno di ordinaria correttezza, scevro di auspicato carisma, pago anzi della bionda bellezza, appare invero prematuro, non commisurato al rango dell’istituzione e alla responsabilità dell’impegno. Così come deboli, per routinarie risorse vocali e pallida caratterizzazione, appaiono sia l’Albert di Jean-Sébastien Bou – senescente, quando il libretto lo dice venticinquenne – sia il poco amorevolmente paterno Podestà di Armando Noguera. Regina della festa si trova così a essere Francesca Pia Vitale, come vivace Sophie d’ordinanza.

Il nuovo allestimento scenico in oggetto costruisce una sensuale tresca tra la sorella minore di Charlotte e il cognato Albert: si tratta di un isolato elemento drammaturgicamente stuzzicante nella regìa di Christof Loy, uomo di teatro che altrove ha messo a punto capolavori insuperabili, quali Peter Grimes di Britten al Theater an der Wien o Ariodante di Händel al Festival di Salisburgo, ma che per il proprio tardivo esordio alla Scala prende la via di un’innocua prudenza, non pepata dalle scene di Johannes Leiacker (un colossale muro d’appartamento parato a righe, con al centro una sproporzionata porta a vetri) né dai costumi di Robby Duiveman (vestiario di primo Novecento, senza che si colga il perché della trasposizione temporale dal Settecento). Quanto al concertatore, Alain Altinoglu, si ricorda quanto bene la sua lettura di Werther si fosse combinata, al Liceu di Barcellona, nel 2017, con quella registica di Willy Decker nonché con quella di Anna Caterina Antonacci, come impareggiabile Charlotte, e di Joan Martín-Royo, come sorprendente Albert (meno fruttuosa era stata l’intesa col protagonista, un poco rifinito Piotr Beczała). Nell’assai meno stimolante orizzonte dello spettacolo milanese, la sua lettura di sette anni dopo si fa forte del superbo materiale dell’orchestra della Scala, più con impeto da reinventato Sturm und Drang che non con le estetizzanti nuances da fin de siècle. Accoglienza benevola per l’intera operazione, a riprova che i fischianti tempi temuti da Alagna, alla Scala, sono ormai archiviati. Degno del trionfo, piuttosto, stava dietro l’angolo il nuovo allestimento di Turandot di Puccini, con le sue recite intrecciate, di lì a pochi giorni, a quelle di un timido Werther.


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