L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Puccini a misura di Scala

di Francesco Lora

Non meno che formidabile la Turandot con la quale il Teatro alla Scala, a metà della stagione in corso, ha ostentato una sorta di seconda, grandiosa e schiacciante inaugurazione: il merito è della concertazione di Michele Gamba, delle maestranze scaligere, della regìa di Davide Livermore e del canto di Anna Netrebko, Yusif Eyvazov, Rosa Feola e Vitalij Kowaljow.

MILANO, 28 giugno e 15 luglio 2024 – Due possibili esordi sono venuti alla penna nell’accingersi a recensire Turandot al Teatro alla Scala, con le sue sette esauritissime recite dal 25 giugno al 15 luglio. Il primo è che Milano s’è trovata, con sua stessa sorpresa, a celebrare un secondo Sant’Ambrogio, tanto vicino al solstizio d’estate quanto l’ufficiale 7 dicembre lo è a quello d’inverno: ecco uno spettacolo davvero degno di un massimo teatro del mondo, con una parata d’idee, di stelle e di argomenti per nulla inferiore a quella dell’inaugurale Don Carlo. Il secondo possibile esordio, invece, è che il centenario della morte di Giacomo Puccini sta facendo meno danni del previsto: l’overdose di titoli rappresentati secondo sciatta routine, in fondo, è quella di sempre, ma in mezzo si stanno distinguendo anche letture eccezionali e riformatrici, com’è avvenuto nella Tosca al Maggio Musicale Fiorentino e come sta avvenendo nel programma della Scala. In questo secondo caso, si realizza di assistere a due allestimenti complementari. La rondine della scorsa primavera, infatti, è stata il temuto disastro nella regìa pretestuosamente metateatrale d’Irina Brook, ma è stata il solito miracolo nella direzione caleidoscopica e smagliante di Riccardo Chailly, con le relative, consuete rivelazioni dal podio sull’assetto testuale di un’opera più ignota di quanto non si sospettasse: le sue varie versioni, in altre parole, non sono l’una evoluzione dell’altra, ma derivano tutte da un archetipico manoscritto, cui finora – ossia prima degli scrupoli di Chailly – non era mai corrisposta un’esecuzione; benvenuto squilibrio, infine, s’è avuto nella compagnia di canto, dove la Magda di Mariangela Sicilia ha improvvisamente ricordato, alla Scala globalizzata e a-idiomatica degli ultimi diciannove anni, cosa significhi essere una grande artista all’italiana, tutta genuina abnegazione e nessun vezzo mistificatorio. La Turandot della corrente estate è stata una cosa differente, non meno notevole.

Al podio direttoriale era stato designato Daniel Harding, il quale ha però preferito il ricongiungimento familiare ai doveri contrattuali, e ha piantato in asso, da gran signore, la Scala e il suo pubblico. Lo ha sostituito Michele Gamba, con una lettura musicale che colpisce come la sua più persuasiva di sempre. Egli attua una direzione aspra, ritmica, nervosa, incalzante, con percussioni e ottoni in vistoso primo piano su archi e legni, disinibita nel restituire a nudo gli spaventosi cluster di note, nello sfrattare ogni residuo di zuccheroso puccinismo melodico e nel caricare di colore denso persino i pianissimo impalpabili; una direzione, poi, che s’abbandona al rubato proprio quando s’inizierebbe a tacciarla di metronomismo, e viceversa; una direzione, infine, che inesorabilmente e magnificamente tratta il coro come se fosse una sezione dell’orchestra, e che, dopo aver riunito in una sola le due maggiori compagini scaligere, le accompagna senza vanità a una consacrazione del loro strapotere. Insomma: si può fare anche senza Harding, se s’ha un Gamba da far divertire. C’è poi il nuovo allestimento con regìa di Davide Livermore, scene di lui stesso con Eleonora Peronetti e Paolo Geo Cucco, costumi di Mariana Fracasso, luci di Antonio Castro e video di D-Wok. Succede allora che in tale Sant’Ambrogio-ombra si metta meglio a fuoco come mai questo Livermore abbia meritato quattro consecutive inaugurazioni di stagione: la presente Turandot, condotta nei bassifondi criminali di Pechino, negli squallori sessuali dei dignitari, nelle controscene minuziosissime, nella meraviglia del giardino rosso di foglie d’acero che cala dal cielo recando l’indifferente principessa addormentata a intersecarsi col mondo dei comuni mortali, nella commemorazione a candelette accese di Puccini morto là ove nell’opera muore Liù (idea ridicola sempre e ovunque, fuorché ibi et tunc), ebbene, la presente Turandot è un capolavoro interpretativo che entusiasma.

Quanto all’assetto testuale, determinato presumibilmente sotto Harding, si tira un sospiro di sollievo che non si sia fatto chiudere il sipario a metà dell’atto III, in ossequio all’aneddotica della Scala di Arturo Toscanini («Qui finisce l’opera rimasta incompiuta per la morte del Maestro»). Lo si tira altrettanto sul pensionamento del finale alternativo composto da Luciano Berio (fuori tempo massimo) ed eseguito da Chailly a Milano nel 2015 (in agguato c’è anche il pericolo che ognuno prenda a confezionarsi il proprio finale, abusando del concetto di ‘opera aperta’ in anni filologicamente già parecchio confusi). Spiace, invece, che si sia persa l’occasione di presentare per la prima volta alla Scala l’originale completamento di Franco Alfano, rifiutato da Toscanini e tuttavia assai più coerente, in sé e col resto, rispetto alla versione ridotta poi passata nel repertorio. C’è poi un altro e ben più serio pasticcio: l’insulso triplo taglio di tradizione, per quaranta misure complessive, nel primo quadro dell’atto II. Monta però il sospetto che all’origine della scelleratezza ne stia una peggiore, ossia la scrittura di tre interpreti non adeguati alle parti dei caratteristi Ping, Pong e Pang, cui spetterebbero quelle misure tutte a base di sfavillante chiacchiericcio, banali a una prima scorsa dello spartito e invece infide alla prova del palcoscenico. Un diavoletto s’immagina cosa potrebbe essere successo: per non offendere le comunità asiatiche con gli stereotipi di un’antica fiaba europea, s’è scelto di affidare le parti dei tre cinici e comici dignitari ad altrettanti cantanti di origine asiatica, rispettivamente Sung-Hwan Damien Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou. Toppa, però, peggio del buco: il melomane di razza sa che l’esplosivo terzetto richiede l’esperienza di maturi cantanti madrelingua, capaci di non far perdere una sola parola nel suo senso letterale e nel suo sottinteso malizioso; ciò che nel tempio della Scala, per dirla con un eufemismo, è mancato come altra volta mai.

Di Anna Netrebko tutti sanno che canta con la patata in bocca, stonando e ingolando. Dietro lo scherzo, un che di vero c’è: a vocalità gigantesche non corrispondono imperfezioni nane. Eppure, il patrimonio canoro – poetico, naturale, tecnico – di questa regina dei soprani strabilia ogni volta per sfarzo, potenza, facilità, duttilità, luminosità, et cetera (pensi il lettore a trovare ogni più invidiabile dote aggiuntiva, esprimibile in undici, dodici, tredici grafemi e così via: non si rischia di sbagliare). Un solo indizio, nella Turandot della Netrebko, tradisce gli anni che passano a fronte di un rinnovato appeal fisico: si tratta della tenuta di fiato, che ella continua spensieratamente a calcolare come inesauribile e oggi la trova talvolta in affanno prima di concludere la frase; ma occorre la pedanteria di Beckmesser per mettere nero su bianco l’appunto e nel contempo non vergognarsi. Altrettanto eccellente, come Principe ignoto, è Yusif Eyvazof, sfumato, espressivo, svettante, astuto nell’insistito ricorso al registro misto e spudorato nell’interpolare quattro Do sopracuti consecutivi – alla sua maniera areniana – nell’apoteosi della “Scena degli enigmi”. Nelle ultime tre recite, raccoglie da lui il testimone non il previsto Roberto Alagna, bensì il rampante Brian Jagde, ancora più squillante e voluminoso, ma con uno stile e una comunicativa ancora da disciplinare a fondo. Nella libera fiera dell’estroversione, rischia di passare inosservata la delicata, studiosa, misurata Liù di Rosa Feola, la quale completa però le glorie di quanto ascoltato, negli stessi giorni e nella stessa parte, dalla Sicilia e da Maria Agresta a Verona. Originalissimo il Timur di Vitalij Kowaljow: non il solito decrepito gemebondo, ma un re ancora energico e indomito, per quanto offeso dalla vecchiaia, dalla cecità e dalla sconfitta, con una voce di granito che commuove tanto più per il suo sapersi sciogliere in improvviso affetto verso la schiava fedele: solo per lei. Una Turandot finalmente a misura di Scala.


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