L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I figli del mito

di Roberta Pedrotti

Entusiasma la nuova produzione di Ermione al Rossini Opera Festival con Michele Mariotti sul podio, regia di Johannes Erath e Anastasia Bartoli protagonista.

PESARO, 9 agosto 2024 - Ermione è un titolo mitico per ogni rossiniano, l'unico vero fiasco nella carriera del Pesarese, l'unica opera non essere stata più ripresa dopo il debutto del 1819: si contano appena alcune recita spagnole ottocentesche e l'oblio fino alla ripresa moderna in forma oratoriale (Siena 1977) e in forma scenica (Pesaro 1987). Fioriscono, ovviamente, subito letteratura critica e aneddotica sulle possibili ragioni del rifiuto verso un'opera della piena maturità del compositore più acclamato del suo tempo e se ne fa anche l'emblema di una genialità che in quanto tale non può essere sempre compresa dai suoi contemporanei. Storia e mito di Ermione sono ben indagati nei saggi di Saverio Lamacchia ed Emanuele Senici nel programma di sala, corollario di una constatazione patente alla prova del palcoscenico: quest'opera ha assunto quest'aura di eccezionalità perché è effettivamente eccezionale, uno dei vertici assoluti della storia del teatro musicale, un capolavoro che ancora oggi risulta sconvolgente per la plasticità con cui, senza nessun compromesso, la costruzione armonica e l'articolazione tematica entrano in relazione con la parola e con la psicologia (tortuosa se non malata) dei personaggi. Forte della fonte (Andromaque di Racine) e di potenti richiami classici (più ancora dell'Andromaca di Euripide, la Medea dello stesso o l'Aiace di Sofocle), il libretto di Andrea Leone Tottola ha insieme una finezza e una potenza rare, in perfetta simbiosi con un Rossini che si mostra uomo di teatro di statura assoluta, pronto a sovvertire anche le regole e le forme che lui stesso aveva creato.

Ermione a Pesaro non si è vista spesso, finora solo nella citata prima dell'87 (Caballé, Horne, Blake, Merritt, Kuhn e De Simone) e nel 2008 (Ganassi, Pizzolato, Siragusa, Kunde, Roberto e Daniele Abbado). Inevitabilmente l'attesa per questa nuova produzione era febbrile, perfino incandescente alla fine. Anche l'esito, però, lo è stato, con applausi al calor bianco e tanti sguardi elettrizzati e felici alla fine. Il Festival è solo all'inizio, ma possiamo ben dire che quest'Ermione entrerà nella memoria come uno dei migliori spettacoli di questi anni.

Se mai ce ne fosse bisogno, Michele Mariotti si riconferma bacchetta di riferimento della sua generazione (e, diremmo, anche fra i più grandicelli): la partitura è compresa nel suo intimo, non c'è dettaglio che non venga inquadrato con chiarezza e portato a vivere. Sentire i colori e gli incastri della scrittura rossiniana così esaltati da un'Orchestra Rai ben indirizzata è un piacere raro e lo si gusta tutto nel pulsare di ogni inciso strumentale, di ogni effetto timbrico o armonico, di fiammate imponenti e strazianti rarefazioni, sempre in simbiosi con il canto, perché in Ermione il canto e gli strumenti sono parola, sono teatro. Si assume anche dei rischi, Mariotti, quando accentua la ferocia o la monumentalità tragica, ma tutto è così ben pensato e controllato da risultare sempre entusiasmante, senza che mai l'accumulo di tensione arrivi al sovraccarico. Tutto funziona perché direttore e regista si muovono in perfetta sintonia basandosi entrambi su uno studio appassionato del testo.

Il debutto di Johannes Erath a Pesaro è la boccata di aria fresca di cui avevamo bisogno. Al di là del giudizio sulle scelte estetiche e interpretative, a quanto si può discutere o lasciare al gusto soggettivo, il regista tedesco mette in campo prima di tutto un'indiscutibile perizia tecnica. Si vede che ha alle spalle studi ed esperienze musicali come violinista (in teatri d'opera) e conosce bene la musica; si vede che si è formato assistendo maestri come Decker e Vick. Ma si vede anche che ha consolidato una sua propria personalità, con la quale sviscera la drammaturgia di Ermione portandone alla ribalta la frammentazione psicologica, il dramma interiore che si riverbera in un ambiente simbolico e straniante. Ermione, Pirro e Oreste sono tre figli di eroi (rispettivamente di Elena e Menelao, Deidamia e Achille, Clitennestra e Agamennone), orfani dell'età epica della Guerra di Troia, schiacciati da quei modelli, incastrati in una catena distruttiva di brame di possesso scambiate per amore. A scatenare il collasso è la donna desiderata da Pirro, Andromaca, la vedova di Ettore, non una figlia, ma una sopravvissuta della generazione precedente: infatti Erath la mostra canuta e fiera, perfino di fronte alle torture subite dal figlio Astianatte, compita nel ricordo del suo rango regale, mentre la passione smodata di Pirro (figlio dell'assassino di Ettore) appare ancora più eccessiva e perversa. Attorno ai quattro attori principali dell'intrigo amoroso (nella presenza fisica di un Eros adulto immolato al culmine della Gran scena di Ermione) il coro e i confidenti hanno movenze surreali, come di spiriti, proiezioni di menti vacillanti. Allora il duettino fra Pilade e Fenicio (“A così trista immagine”) sembra quasi un numero di cabaret dallo humor un po' sinistro, ricordandoci che questa pagina ha in effetti un senso distensivo, di alleggerimento fra la furiosa Gran scena di Ermione e la catastrofe tragica. Anche molti stasimi di Euripide, per le scelte musicali e poetiche, rappresentavano un'improvvisa fuga dal peso degli eventi e questo concetto associato, appunto, al cabaret sortisce un intelligente effetto perturbante.

Come la concertazione di Mariotti, la regia di Erath non lascia nulla al caso, è più che mai attenta ai dettagli, ma pure sa concentrare sempre l'attenzione nel punto giusto, non risulta mai dispersiva e mette a frutto l'eccellente lavoro su luci e video di Fabio Antoci e Bibi Abel, la vivida caratterizzazione dei costumi di Jorge Jara, l'abile costruzione delle scene di Heike Scheele (con cornici rettangolari concentriche che quasi sembravano un omaggio a quelle tondeggianti pensate da Enrico Job nell'87).

Con tali guide musicali e teatrali, il cast non può che trovarsi nelle condizioni di dare il meglio di sé, specie in un'opera di improba difficoltà per la continua tensione recitativa che innerva anche il virtuosismo più scabroso. Attesissima era, chiaramente, l'eroina eponima: dopo la Cristina dello scorso anno (cui Rossini affidò diverse pagine tratte da Ermione), Anastasia Bartoli è chiamata ora a vestire i panni tragici della principessa di Sparta e lo fa sfoderando le sue carte migliori. La voce, si sa, è privilegiata per sonorità ed estensione, per un timbro peculiare la cui pienezza del colore sa farsi puntuta e affilata, in sintonia con la forza ferina della presenza scenica. Tutte doti che giovano assai a un personaggio come Ermione, che non è lasciato comunque all'istinto e alla dote di natura, ma è evidentemente meditato nel continuo trascolorare fra sensualità, ironia sardonica, ferocia, dolore, allucinazione. Dopo una recita come questa vorremmo vederla dedita più a questo tipo di tragedia in musica che ad altro repertorio, per cui appuntiamo solo il desiderio di sentirle affinare certi passaggi di coloratura più minuta.

Dopo Otello e Carlo, Enea Scala aggiunge Pirro ai grandi personaggi affrontati a Pesaro dopo qualche anno di gavetta (e senza contare i Rossini cantati altrove). Al pari di Bartoli, si distingue per l'energia totalizzante profusa nella definizione del personaggio, oltre che per la vigorosa presenza sonora. Non si risparmia mai e tutto, nelle sue scelte di fraseggio e nei colori della sua voce baldanzosamente spinta da un estremo all'altro della tessitura, trasuda, anche come attore, l'arroganza isterica del “figliol d'Achille”, l'hybris capricciosa, l'inquietudine profonda. Victoria Yarovaya, rispetto alle personalità tracimanti e borderline di Pirro ed Ermione, è un'Andromaca altera e contenuta come lo spettacolo richiede, anche se magari non troppo pregnante nel registro grave.

Assai atteso era anche il debutto di Juan Diego Florez, che finora di Oreste aveva solo cantato la versione della cavatina riadattata come aria alternativa per La donna del lago. Certo, tutta la parte, con il suo insistere in una declamazione scolpita, è ben altra cosa e impone un impegno che, viepiù dopo quasi trent'anni di carriera, costringe il tenore peruviano a giocare in difesa in più punti. L'esperienza del rossiniano lo aiuta e la solidità tecnica gli permette affidarsi a ben assestati acuti (benché quello finale fosse francamente superfluo). Se lo consideriamo, poi, anche nel suo ruolo di direttore artistico, non potremo che ringraziarlo per aver firmato la locandina di uno spettacolo di questo valore.

Fra i comprimari si fa notare il Fenicio di Michael Mofidian, di cui già lo scorso anno avevamo apprezzato la bella vocalità e che oggi scopriamo anche come disinvolto attore dalle fluide movenze. Bene anche Antonio Mandrillo come Pilade, Martiniana Antoine Cleone, Paola Leguizamon Cefisa e Tianxuefei Sun Attalo. Il coro del teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina condivide con i figuranti (purtroppo la locandina tace i nomi di Astianatte ed Eros) un impegno teatrale assolto con felice partecipazione.

Una grande concertazione, una grande regia, vero teatro musicale per un capolavoro che merita il suo status di mito. E usciamo dalla Vitrifrigo Arena con le stelle negli occhi.


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