L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ur-Turandot

di Luca Fialdini

Applausi per il debutto a Torre del Lago per Anna Pirozzi, che riceve il 55° Premio Puccini

TORRE DEL LAGO (LU), 3 agosto 2024 – Il 70° Festival Puccini su volontà del direttore artistico Pier Luigi Pizzi propone un calendario di sei titoli in cui si ricompone l’ordine cronologico di titoli del compositore lucchese (con l’eccezione di una Madama Butterfly a settembre, che però è considerata un fuori programma); si viene quindi a realizzare un arco che dalle Willis conduce direttamente all’ultima pagina, la tanto amata quanto discussa Turandot. Come nel caso delle Villi e di Edgar, di cui sono state scelte le versioni originali, anche con questa fiaba cinese dai natali veneti si cerca di seguire il più possibile le orme dell’autore preferendo fermare l’esecuzione al lamento funebre per Liù.

A questo proposito bisogna sottolineare una cosa (benché il mito sia già stato ampiamente sfatato): Puccini non ha lasciato l’opera incompleta perché la morte gli tolse di mano la penna, ma perché si arrestò proprio alla scena della morte di Liù e rimase quasi un anno con “solo” quel duetto finale da scrivere per portare a casa un titolo definitivamente compiuto. A trattenerlo non furono né la malattia né la morte ma le magagne di un libretto molto carente sul versante drammaturgico; in particolare il nodo che Puccini non riuscì a sciogliere era quello del famoso sgelamento di Turandot: per tre atti viene mostrata come principessa di morte e di gelo e poi, giusto lo spazio di un duetto, eccola già pronta ad alzare il gran pavese di un finale disneyano in cui (for reasons) l’amore trionfa. Turandot non ammette di essere sgelata o umanizzata per l’essenza stessa del personaggio.

Certo, esistono agli appunti sul duetto “Principessa di morte” e poco oltre, ma appare oltremodo significativo che la partitura e il canto e piano siano assolutamente completi e coincidenti fino al medesimo punto: «Liù, poesia», con quell’ottavino appeso come una flebile luce nella notte. Nel progetto originale senz’altro non era stato concepito come finale, ma non si può dire che nella formulazione prescelta dal compositore questo momento non abbia un senso di cesura fortissimo. Per dirla proprio fino in fondo, fra i due finali Alfano e quello di Berio, tutti uditi nel corso degli anni al Festival Puccini, questo non-finale è senza dubbio quello che possiede la maggior potenza teatrale, quello più emozionante e anche più coerente con l’opera stessa perché, al netto delle intenzioni del libretto di Adami e Simoni, Giacomo Puccini ha esplicitamente creato un microcosmo teatrale e musicale più vicino all’immaginario dell’Oriente che non delle Fiabe teatrali di Gozzi: una dimensione da rituale tragico e crudele, con le figure divine dell’Imperatore e della lontana, intoccabile principessa. Particolarmente efficace la resa di questo finale a cui sarebbe bello potersi abituare, per la scelta di mostrare una lenta processione dietro al corpo di Liù dopo la fine della musica, con il corteo di silhouette che sfila lentamente di fronte al silenzio del pubblico.

L’ideazione scenica è, appunto, a firma di Pier Luigi Pizzi dalla regia alle scene, passando per i costumi; al netto di qualche somiglianza molto specifica con la Turandot di Robert Wilson del 2018 per il Teatro Real di Madrid, l’apparato visivo possiede una grande eleganza e, in attesa della Butterfly di fine agosto, sembra essere lo spettacolo più curato (e più riuscito) della stagione. Il ledwall e la pedana rotante che hanno caratterizzato l’intera edizione sono proposti con una maggior raffinatezza, in particolare le rotazioni della pedana vengono sfruttate con intelligenza in combinazione con la presenza di un camminamento soprelevato con la sezione centrale mobile: la presenza stessa delle impalcature viene posta in rapporto alle regioni monocromatiche del ledwall, creando una piccola foresta di rettangoli bordati di nero à la manière di Mondrian, mentre quando il ledwall mostra due sovrapposizioni di colore è abbastanza istintivo lasciar correre il pensiero alle tele di Rothko. Funzionali le luci di Massimo Pizzi Gasparon e di miglior qualità i video di Matteo Letizi, con la solita presenza delle coreografie di Gheorghe Iancu: si può discutere sulla scelta di includere personaggi della commedia dell’arte, che in effetti costituiscono un gustoso riferimento all’originale gozziano, ma di fatto Puccini se n’è completamente discostato.

In definitiva, del resto come sempre per Pizzi, non esiste un vero e proprio impianto registico ma più una proposta visuale, il punto è che in questo caso la proposta funziona molto bene e probabilmente anche grazie alla natura particolarissima del titolo, dei suoi toni freddi e cerimoniali; un rigore quasi religioso che trova un felice contrappunto con una scena tanto essenziale quanto efficace, peraltro con alcuni guizzi davvero felici: il già citato corteo funebre avvolto dal silenzio, una principessa di gelo fisicamente distante dal mondo terreno e pure con un velo che non ci consente nemmeno di ammirarla nella sua umanità, i focus su Ping, Pang e Pong come sull’imperatore Altoum.

Il direttore Renato Palumbo si muove nella stessa direzione del progetto visivo di Pizzi: a un impianto scenico fiabesco e irreale, Palumbo risponde con una direzione volta a sottolineare i colori e le molte raffinatezze di una partitura in cui Puccini si decide una volta per tutte a evocare scopertamente il Novecento. Ecco che si mette in luce l’accorta scrittura delle percussioni, ad esempio, nella sospensione del «Silenzio» delle ancelle, la rapida scansione di semicrome con acciaccature in controtempo del tamburo, una sorta di eco barbarica del distopico «tempo delle favole» evocato nella didascalia iniziale. Ma nella direzione di Palumbo si dà molto risalto anche alla chiarezza della trama orchestrale e se in qualche frangente poteva esserci un tratto più sanguigno i momenti in cui l’Orchestra del Festival Puccini ha dato il meglio di sé sono stati quelli più intimi e delicati. Il Coro e il Coro di voci bianche, rispettivamente preparati da Roberto Ardigò e Chiara Mariani, hanno avuto qualche lieve incertezza nelle quadrature dei tempi ma nel complesso si registra una prova molto superiore a quanto ascoltato nelle scorse serate del Festival.

Il cast è complessivamente buono, con alcune particolari punte d’interesse, ma una selezione più accurata non pare di eccessivo sforzo. Bene Davide Piaggio come Principe di Persia e adeguate le due ancelle di Greta Buonamici e Maria Salvini.

Ben centrati e dai timbri diversificati Ping, Pang e Pong: nel trio i due tenori Luigi Morassi e Saverio Pugliese, spigliati e con mestiere, ma su tutti svetta l’ottimo baritono Pietro Spagnoli a cui è stato felicemente assegnato anche il ruolo del Mandarino. Impeccabile nella dizione e nella correttezza del fraseggio, Spagnoli conferisce al proprio personaggio uno spessore tale da elevarlo ben al di sopra del ruolo di contorno per cui Ping è stato concepito e soprattutto gli infonde una personalità netta e ben leggibile.

Felice ritorno di Andrea Concetti, già udito nei panni di Geronte di Ravoir nella Manon Lescaut. In questo titolo impersona un convincente Timur e, come sempre avviene nei suoi personaggi, Concetti evita eccessi di qualunque tipo: niente tratti caricaturali, niente facili patetismi, piuttosto una intensa luce di umanità fatta trasparire attraverso raffinate cesellature della linea vocale e un evidente ossequio per la partitura.

In questa Ur-Turandot senza finale il personaggio di Liù acquisisce un peso maggiore del solito visto che la scena “conclusiva” è tutta sua, quindi non è retorico domandarsi se non era possibile avere un’interprete più caratterizzante di Chunxi Hu. La sua Liù è senz’altro apprezzabile, in scena si muove bene, ma non attira mai l’attenzione, non c’è mai un momento in cui reclama il palco per sé. La tecnica è solida e sia i filati sia i piani ben eseguiti ne sono testimoni, anche il timbro è gradevole, pertanto dispiace dire che questa è una Liù che non resta nella memoria.

La nota più dolente del cast è costituita dalla scelta di affidare la parte di Altoum a un controtenore. Preferiamo archiviare questa decisione come facezia davvero fuori luogo e non fornire giudizio su Danilo Pastore, di cui si è comunque ammirata la notevole confidenza con il palco e la grazia nel gesto scenico.

Deludente anche l’assegnazione del ruolo di Calaf: in un’edizione particolarmente funestata dalla scelta di tenori di poco spessore (Bohéme) o addirittura cattivi (Manon Lescaut), anche in questo caso ci si è affidati a uno degli habitue di Torre del Lago: al netto di un bel timbro e di un’emissione conosciuta come generosa, Amadi Lagha ha sempre mostrato in modo palese i propri limiti sia nell’interpretazione, sia nel fraseggio (per non dire nel solfeggio), quindi si può sollevare per lo meno qualche perplessità sull’appropriatezza dell’assegnazione. Ai limiti conosciuti si aggiunge una certa fatica nel registro acuto – con un «Nessun dorma» classificabile come prudente, peraltro troncato di netto nella puntatura finale – e anche qualche difficoltà nel sostegno dei fiati, invero piuttosto corti.

Di notevole caratura Anna Pirozzi nel ruolo del titolo, qui al suo debutto a Torre del Lago. Ieratica e impassibile, la sua figura di staglia diafana e quasi divina, così distante dal piano umano da essere percepita come più irraggiungibile che mai; Pirozzi raggiunge questo risultato con pochissimi tratti di rara efficacia, dominando di fatto la scena a ogni ingresso o apparizione, come la fugace entrata nel primo atto. Vocalmente raggiunge un risultato incredibile, vale a dire l’ottenimento di una dizione intellegibile persino in alcune delle frasi più impervie. La scrittura vocale di Turandot è un grido continuo sin da «In questa reggia”, eppure il soprano riesce a proporre un’articolazione del suono intelligente e molto musicale su tutta la gamma: i pochissimi gravi sono sempre eleganti e salendo si produce in un timbro di freddo metallo «come quella spada» che è Turandot. Un debutto davvero splendido, applaudito senza riserve (e anche senza attendere la fine dell’aria), suggellato dalla consegna del 55° Premio Puccini.

Il pubblico caloroso e a volte un po’ troppo entusiasta ha ben accolto la produzione; il dato più interessante è l’effetto assolutamente positivo registrato da questo finale-non-finale, che nell’opinione di chi scrive – come già anticipato sopra – dovrebbe essere proposto con più costanza anche all’infuori dei revival per il centenario della morte del compositore.


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