Affari di famiglia
di Roberta Pedrotti
Bianca e Falliero inaugura il Rossini Opera Festival e ne segna il ritorno al Palafestival. La prima è un successo soprattutto per il cast vocale, con Jessica Pratt, Aya Wakizono, Dmitry Korchak e Grorgi Manoshvili nelle parti principali.
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PESARO, 7 agosto 2024 - Ripercorrere via Marsala, vetrine che già conoscevamo a memoria vent'anni fa; poi viale dei Partigiani, il Palafestival. Tornare a sentire risuonare le note di Rossini, a vedere agire sul palco di questo luogo mitico nella storia del Festival pesarese. Sì, siamo tornati a casa e non importa che sia perfetta – rimbalzano ovviamente commenti su pregi e difetti dell'una o dell'altra sala, ché nessuna potrà esserne esente –: è casa, a goderci l'opera a pochi passi dal mare e dal centro. In mattinata il vicesindaco Vimini ha anche parlato della riapertura dell'Auditorium Pedrotti per il Rof: incrociamo le dita.
I ricordi di gioventù, delle prime estati (ed estasi) pesaresi si rianimano a rendere ancora più dolce l'idea dell'opera di nuovo qui. Inutile negare che la memoria del tempo delle scoperte e dei nascenti entusiasmi accresca l'affetto per questa inaugurazione congiunta del Festival e del risorto Palafestival. Invece, l'eco delle prime edizioni pesaresi di Bianca e Falliero, entrate nella leggenda, non offusca nella nostalgia la locandina di oggi. È chiaro che nomi come quelli di Horne, Cuberli, Merritt sono già stati consegnati all'Olimpo e lì rimangono, ma nella loro indiscussa grandezza ai loro tempi erano dei fenomeni isolati insieme con pochi altri. Oggi anche senza di loro continuiamo a poter sentir cantare bene da comuni mortali un'opera che un tempo sarebbe parsa ai limiti dell'ineseguibile: non è cosa da poco e forse, quando si parla di crisi, bisognerebbe ricalibrarne i termini e riconsiderare gli oggetti del biasimo.
Bianca e Falliero, certo, richiede almeno tre cantanti di prim'ordine, ma sarebbe grave errore guardare il dito dell'ardita floridezza di scrittura e trascurare la Luna dell'ultima collaborazione fra Rossini e Felice Romani. Parimenti, sarebbe facile semplificare il soggetto e liquidarlo in due parole: cupa ambientazione veneziana sempre d'effetto, classico amore contrastato da un padre che vuole imporre un matrimonio combinato alla figlia. Qui, peraltro, le ragioni del padre tiranno sono quelle di un qualunque genitore da opera buffa, il Geronimo del Matrimonio segreto o il Tobia della Cambiale di matrimonio: Falliero è un valoroso comandante e un buon cittadino, ma non è sufficientemente ricco, mentre imparentarsi con Capellio garantirebbe la fine di una disputa per un'eredità. Si parla solo di soldi, senza un qualche alibi politico o d'onore, e siccome la faccenda si fa seria assai, anche a costo di condannare a morte l'innocente ma sgradito amoroso, Contareno trasforma il prototipo buffo in un personaggio semplicemente spregevole, senza nemmeno i momenti di dubbio, tenerezza o nobiltà di un Argirio (Tancredi) o di un Douglas (La donna del lago). Si smaschera, insomma, come avverrà nella Traviata, il venale materialismo della borghesia rampante, per di più facendo leva in maniera spudorata sugli affetti familiari. Non avrà scritto per caso, Romani, la stessa espressione del coro per due eventi opposti, quasi a sottolineare l'ambiguità dei sentimenti anche manipolati e manipolatori: “alfin natura | dell'amore trionfò” quando Bianca accetta di obbedire al padre rinunciando a Falliero; “La natura trionfò” quando Contareno cede e non si oppone più al rapporto fra i giovani.
La drammaturgia di Bianca e Falliero va, insomma, oltre il cliché e propone, oltre all'ostinata durezza di Contareno, caratteri non stereotipati, bensì in evoluzione, a partire dalla protagonista femminile, schiacciata dai ricatti affettivi e dalla prevaricazione paterna ma capace, infine, della suprema ribellione testimoniando nel processo. E proprio la scena del tribunale del Consiglio dei Tre è emblematica della cura grandiosa che Rossini pose nella partitura, con un coro cupo e terribile (“Ah! Qual notte”) che potrebbe fare il paio con “Tremate, o popoli” dalla Gazza ladra (altra opera milanese dal forte contenuto politico), la sublime e ostica Gran Scena di Falliero, il sopraffino quartetto e l'accorato racconto di Bianca. O, ancora, la scelta del rondò finale, che potrebbe sembrare di comodo (è lo stesso della Donna del lago e tornerà nella versione veneziana di Maometto II) ma in realtà rivela il carattere problematico dello stesso pezzo, come in ogni suo utilizzo: si dubita dell'autentica felicità di Elena, Anna Erisso giubila ma ha rinunciato all'amato condottiero turco sposando quello che per lei è solo un amico fraterno, Bianca nella prima parte addirittura si sottomette al padre e solo nella cabaletta vede coronato il suo amore. Rossini mette sempre di fronte a un ventaglio di significati possibili, a una perturbante coesistenza di opposti.
Per venire a capo di questa matassa e svelare Bianca e Falliero non solo come sbalorditiva esibizione vocale, il Rossini Opera Festival gioca sul sicuro.
Sul podio, un volto ben noto per le scene pesaresi: Roberto Abbado conosce bene questo repertorio e lo fa subito capire con la scelta di sviluppare i recitativi con violoncello (Jacopo Muratori) e contrabbasso (Matteo Magigrana) ben presenti insieme con il fortepiano (Andrea Severi). Ben fatto davvero: la coerenza filologica, la consapevolezza della prassi esecutiva sono un concreto vantaggio per la continuità drammatica e musicale dell'opera. L'Orchestra Rai è sempre una carta vincente per qualità del suono nell'insieme e nei soli (il flauto nella Gran Scena di Falliero, ma il discorso si può estendere a tutte le prime parti e alle percussioni), rendendo piena giustizia alla scrittura rossiniana, in cui Abbado non cerca l'enfasi appariscente, ma un pulito, asciutto passo teatrale che punta dritto al crescendo di tensione del secondo atto.
Non rischia la regia di Jean Louis Grinda. Lo spettacolo si muove tradizionalissimo, pur evitando nell'ambientazione fasti storici. Le scene di Rudy Sabounghi (autore anche dei costumi) sono assai dimesse, ma hanno il pregio di mutare di continuo senza soluzioni di continuità, permettendo di godere del dramma musicale nel suo fluire compatto più efficace. Nessuna sorpresa, un repertorio di gesti e movimenti consolidato da lungo tempo, qualche dettaglio evitabile (le cameriere che spolverano le pareti, le mossette del coro sotto tiro nel finale primo) e qualche buona intuizione (il finale lieto che non riesce a essere tale). Nel complesso uno di quegli spettacoli che fanno dormire sonni tranquilli, magari un po' troppo, lasciandoci un unico interrogativo sull'identità dell'anziana signora che accompagna Bianca e Contareno. Alla fine pare che possa essere un doppio della protagonista, rimasta intrappolata in una perversa dinamica familiare, privata del suo amore e forse impazzita, ma se così fosse somiglierebbe davvero molto alla Donna del lago firmata sempre a Pesaro da Michieletto. Ad ogni modo, Grinda dichiara di credere in Bianca e Falliero, dimostra, secondo il suo stile, di amarla, e dopo registi che proclamavano la loro avversità alla drammaturgia rossiniana (Castri nel 2000, Bernard nel 2023) o che per voler essere tradizionali diventavano involontariamente comici (Pinkosky nel 2018), meglio questa onesta tranquillità.
A scuoterci, peraltro, c'è il cast, invero ben assortito e, cosa ancor più notevole in un cast internazionale che mette in prima linea un russo, un'australiana, una giapponese e un georgiano, con una dizione sempre chiara e nitida, tale da rendere superflui i soprattitoli. Dmitry Korchak incarna con vigore e incisività l'insopprimibile protervia di Contareno, offrendoci peraltro un esempio di come un tenore non strettamente specialista, che canta abitualmente anche Puccini e Massenet, possa rispondere in maniera più che convincente alle esigenze del canto rossiniano. Il suo perfetto opposto è l'animo nobile di Capellio, cui Giorgi Manoshvili presta una vocalità di pasta privilegiata, che ben si piega alla parte relativamente piccola ma è destinata a ben altri approdi.
Jessica Pratt inanella sovracuti (anche un po' troppi) nelle ardite variazioni fra le colorature di Bianca, ma non sono mai fini a sé stesse, bensì intese a dar forma sonora allo strazio di una mente sull'orlo del crollo. Timbro adamantino ed emissione sempre controllatissima, ci ricorda quanto quest'eroina rossiniana sia dolce, preda di mille pressioni, ma sia anche decisa e tagliente. Sul piano interpretativo e timbrico si fonde allora bene con la freschezza adolescenziale e la luminosa facilità in acuto del Falliero di Aya Wakizono. Del mezzosoprano giapponese non si potrà dire che bene in termini di tecnica, intelligenza e musicalità; se qualche passaggio nel registro centro grave rischia di sfumare senza un particolare mordente eroico, questo dipende solo dalle sue caratteristiche naturali, che giustamente non forza nel tentativo di essere ciò che non è (specie in una parte così micidiale).
Nicolò Donini, il doge Priuli, Carmen Buendía, Costanza, Claudio Zazzaro, Ufficiale/Usciere, Dangelo Díaz, Cancelliere, completano il cast insieme con il coro del Teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina.
Alla prima, l'accoglienza per la parte musicale è entusiastica, con esplosioni anche a scena aperta, mentre la squadra registica, che include anche Laurent Castaingt per le luci, passa quasi inosservata. Il sipario si è alzato fra gli applausi sul quarantanquesimo Rof, con il suo cartellone fitto come non mai: ora non resta che immergerci nel turbinìo di opere e concerti, ghiotti di soprese e conferme.