L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Una débâcle operistica

 di Stefano Ceccarelli

A Caracalla, all’interno del ricco cartellone estivo approntato dal Teatro dell’Opera di Roma, spicca il festival pucciniano, un omaggio al grande operista in occasione del centenario dalla morte. Purtroppo, si tratta di un’operazione per nulla riuscita: Tosca e Turandot sono affidate ad una regia, quella di Francesco Micheli, che si dimostra naïf e priva di ogni contenuto; ad aggravare il tutto vi è una scenografia, quella dei coniugi Fuksas, che se può essere gradevole in plastico e fornire materiale per qualche foto, si dimostra fuorviante per Tosca e, paradossalmente, poco o nulla sfruttata per Turandot. Unica nota positiva di questo festival sono alcune voci, che si lasciano, qua e là, apprezzare.

ROMA, 24-25 luglio 2024 – Il centenario dalla morte di Giacomo Puccini offre l’occasione, a tutte le fondazioni operistiche mondiali, di omaggiare il compositore con programmi ad hoc. Il Teatro dell’Opera di Roma, infatti, dedica buona parte del cartellone estivo di Caracalla a due opere pucciniane, Tosca e Turandot, immaginate come un dittico – le scene e regia, infatti, sono a firma delle medesime persone. È un vero peccato dover constatare che l’operazione tutta è un gigantesco flop e la colpa è da imputarsi proprio alla regia ed all’impianto scenico. Fra le due opere, inoltre, la più sacrificata, lasciata direi quasi a sé stessa, è Tosca.

È veramente difficile figurarsi lo spettacolo realmente andato in scena rispetto alla presentazione che ne fa Micheli nelle note di regia, nel programma di sala. Micheli parla di una «responsabilità di mettere in scena Tosca […]» e afferma: «sentiamo la responsabilità di dire qualcosa di significativo […] forse proprio perché su Tosca è stato detto tutto, quest’occasione stimola a esporre alcune considerazioni che ci sembrano fondamentali». Quello che appare da spettatore, invece, è una regia naïf, caotica, incurante della prossemica dei personaggi, anzi, ancor peggio, una superfetazione di messaggi superflui, veicolati da improbabili scritte in latino che, sovente, hanno poco o nulla a che fare con la scena e indicano, peraltro, una certa superficialità culturale. Regna l’autarchia di una naïveté raramente vista in tanta banalità. Basterà fare solo pochi esempi. La totale assenza di scenografia costringe i cantanti a mimare goffamente scene fondamentali del libretto, altrimenti inintelligibili al pubblico: Angelotti che apre una cappella che non esiste, Cavaradossi che agita il pennello davanti al pubblico… e si potrebbe continuare. L’imperizia di Micheli è portata al parossismo durante la scena del tentato stupro di Tosca, dove l’interprete, che dovrebbe inscenare una finta seduzione nei riguardi di Scarpia, è talmente goffa da risultare ridicola. Nel momento della pugnalata, Scarpia è riverso sulla cantante, impedendole i movimenti: la scena si colora di rosso, con un uso del proiettore che si sarebbe potuto estendere maggiormente al resto dell’opera, vista la monotona neutralità della scena. Fra le scene più brutte si annovera il suicidio della protagonista, che si lascia comodamente cadere in una buca, che non si trova neanche al sommo dell’apparato scenico, con il risultato, ancora, di generare più una risata che del pathos. Le uniche idee vagamente originali apportate da Micheli alla sua lettura di Tosca sono l’iniziale identificazione della protagonista con la Madonna (spunto, poi, del tutto abbandonato) e la sovrapposizione fra Tosca e Avanti a lui tremava tutta Roma, film diretto da Gallone (e non da Rossellini, come afferma Micheli), un elemento interessante che, però, compare ben chiaro solo verso la metà dell’opera (dal II atto in poi). Insomma, l’identificazione di Tosca con la Magnani, protagonista di quella pellicola, idea che sarebbe potuta essere fruttifera, diventa ancor di più un elemento di distrazione. Tale disastrosa regia, peraltro, emerge implacabilmente nitida anche a causa della scenografia astratta e neutra di Massimiliano e Doriana Fuksas: una bianca impalcatura, «frattale» - così i coniugi nella loro intervista, anche se il termine appare poco consono alla descrizione di una sorta di struttura decostruttivista, più banalmente un grande origami; una struttura che, nell’idea di Micheli, «ci permette di eliminare ogni orpello, così che quest’opera finisce per rappresentare, come in un libro metodologico, i meccanismi dell’esercizio e della perversione del potere». Naturalmente, nulla di tutto ciò è minimamente riuscito. La scenografia, probabilmente pensata a vantaggio della sola Turandot (come si vedrà), dà il colpo di grazia alla regia: se la struttura offre, da lontano, qualche scorcio fotografico, evidenzia implacabilmente ogni errore registico. I costumi (G. Masi) sono di poco aiuto: se quello di Tosca/Madonna è interessante, quelli del I atto, bianchi con delle fantasie fiorite in rosso, scompaiono sul bianco fondale; più azzeccati quelli nero/oro del II, che sfumano verso le ambientazioni anni ’40 di Avanti a lui tremava tutta Roma. Un errore banalmente tecnico, poi, è l’incauta scelta di rappresentare buona parte dei momenti scenici di Tosca nella parte sinistra del palcoscenico (la prospettiva è quella dal pubblico), dove c’è una pedana al lato dell’orchestra: chi è seduto nel lato destro si perde tutto quello che avviene lì in scena.

Se la parte registico/scenica è un’autentica débâcle, poco può quella musicale. La direzione di Antonino Fogliani, al netto di qualche bel passaggio (dovuto più alla bellezza della partitura di Puccini, che alla sensibilità del direttore), offre una direzione poco decisa, a tratti strascicata sull’altare di un effetto scenico sterile; un mero accompagnamento atmosferico, dunque. Le maestranze dell’orchestra romana, peraltro, pur non brillando (in particolare nella zona degli ottoni), sono funestate dall’acustica e dall’apparato dei microfoni, pur migliorato rispetto agli anni scorsi. Unica nota positiva di questo spettacolo sono alcune voci. Vittorio Grigolo, certamente, porta in scena un Cavaradossi dallo squillo limpido: guardando alle pure note, alcune sono ragguardevoli (il la diesis acuto di «Vittoria!»), quasi tutte ben porte. La linea di canto è chiara, ben legata (i duetti ne sono un buon esempio); come si è visto nelle due sue arie, «Recondita armonia» ed «E lucevan le stelle», Grigolo forza un po’ su taluni effetti volumetrici (smorzando e crescendo), che potrebbero essere dosati con maggior gusto. Lo Scarpia di Roberto Frontali è inossidabile, per qualità vocale e presenza scenica. Frontali possiede un timbro lievemente schiarito (alla Cornell MacNeil, per intenderci), il che dona alla sua voce quell’elemento viperino ottimale in un ruolo come Scarpia. Non strafà, come dimostra il suo intervento nel «Te Deum» e l’aria del II atto «Ha più forte sapore». Insomma, Frontali è uno Scarpia d’esperienza, che sa calcare le scene e portare a casa la serata. Non convince appieno Sonya Yoncheva nel ruolo di Tosca. Vocalmente parlando, la Yoncheva è anche dotata di un mezzo ragguardevole, ma una dizione non proprio fortunata ed un fraseggio un po’ pesante inficiano molte parti della sua interpretazione, tutto sommato monocorde. Non convince nel duetto del I atto; l’aria «Vissi d’arte» ha qualche bel passaggio, ma nel complesso non brilla – in generale, la Yoncheva ha il problema di gestire un atto, il II, in cui sarebbe dovuta essere guidata con maggior precisione da Micheli, che demanda all’estro dell’interprete. Non dispiace nel duetto del III, sebbene permangano i problemi già indicati. In particolare, la scena della morte, spettacolare e strappalacrime secondo l’idea originale di Puccini, è di una debolezza tale da indurre al riso, vanificando ogni tentativo della Yoncheva. Domenico Colaianni è un Sagrestano più contenuto e sobrio rispetto al consueto. Non male l’Angelotti di Vladimir Sazdovski; incolore lo Spoletta di Daniele Massimi. Il coro dell’Opera di Roma esegue un «Te Deum» che impressiona poco, con qualche voce fuori posto qua e là. Il coro di voci bianche si impegna; peccato per il passaggio a vuoto del pur gradevole Francesco Cicciarello nel ruolo del pastorello.

La situazione non migliora di molto per Turandot. Eppure, a differenza della ‘disperata’ Tosca, questa Turandot, sulla carta, avrebbe potuto funzionare. Micheli immagina che tutta la storia ruoti attorno ad una ragazza hikikomori, la quale dedica la sua vita ad un videogioco, nel quale il suo avatar è la principessa Turandot. L’opera, dunque, inizia con una figurante che si piazza nella (famigerata) ala sinistra del palco, davanti ad un pc, e dà inizio alla storia. Le proiezioni sono usate con più accortezza in Turandot, anche se non sempre a proposito: l’imagerie è quella di un videogioco in cui i personaggi, provvisti di una barra della vita, possono morire se non superano i tre enigmi di Turandot. Possono, però, anche mostrare il loro potere, come nell’ingresso di Altoum, quando i circuiti si accendono a sottolineare la sua autorità. La scena dell’esecuzione del principe di Persia è in questo stile. Ripeto, fin qui la scelta è in linea con tanta regia sperimentale ed ha un suo grado di originalità. Ciò che non funziona è la realizzazione scenica. Questa volta non è tanto la scenografia dei Fuksas il problema, che con la storia di Turandot non stona affatto, ma praticamente quasi tutte le scelte registiche. La più bislacca delle quali è Turandot portata in scena, immobile, su un semovente, di cui si intravedono le ruote, e che le fa da immobile ‘vestito’ («Turandot […] è raggelata […] e infatti noi la faremo entrare in scena così, come “congelata” nell’iceberg dei suoi terrori»). Ma, forse, il punto più basso dell’intera regia lo si raggiunge nella gestione delle tre maschere, Ping, Pong e Pang, colorati di rosso, blu e verde: i loro movimenti sono confusionari, la prossemica del tutto caotica. Un’altra infelice scelta registica è quella di relegare il coro nella buca orchestrale, fantomatici «haters che ne affollano le chat come il coro invisibile che si esibisce in invettive e minacce [sic…]»: questa scelta priva la scena della sontuosità, della pienezza tanto necessaria per rappresentare un’opera come Turandot, oltre a mortificare il suono del coro. In tanto caos qualcosa di buono c’è? A differenza di Tosca, direi di sì: innanzitutto, quando Calaf canta la celebre aria («Nessun dorma!») la scena si apre ed esce del fumo: un effetto tutto sommato ordinario, ma che ha il suo perché. Poi, il carattere del personaggio di Liù: trasposizione metaforica dell’orchidea della protagonista hikikomori, durante la scena della tortura e della morte Liù verrà svestita dei petali del suo abito mentre, parallelamente, la ragazzina coglierà i petali dell’orchidea. Nel complesso, però, anche Turandot delude grandemente – a mia memoria, questo dittico è la regia peggiore cui mi sia capitato di assistere a Caracalla.

La direzione di Donato Renzetti si limita a portare a casa la serata, senza particolari approfondimenti né letture personali di una partitura, Turandot, che presenta una trama di raffinata bellezza. L’orchestra romana fa abbastanza bene, pur con i consueti problemi di acustica: si segnalano, ancora, problemi con i timpani. Il coro sarebbe anche in una buona serata, se lo si fosse potuto ascoltar meglio. Invece, in scena va il coro di voci bianchi, vestito con candide vesti e veli, con indosso maschere vagamente ispirate al teatro orientale – entreranno poi delle comparse così abbigliate a tentare, maldestramente, di ‘riempire’ la scena. Fortunatamente, il cast vocale presenta qualche buona voce. Turandot è Angela Meade, che si preoccupa di farsi sentire e, indubbiamente, ci riesce: «In questa Reggia» attesta la sua potenza vocale, ma manca uno sforzo interpretativo, un fraseggio più ricercato. Proprio quello, invece, che troviamo nella Liù di Maria Grazia Schiavo, non certo dotata di grande voce, ma, tuttavia, provvista di una voce educata, lirica. L’interprete, infatti, si sforza di fraseggiare colorando, sottolineando i sentimenti di volta in volta coinvolti. Ottimo l’attacco di «Signore, ascolta!», come pure la straziante «Tu che di gel sei cinta», a fior di labbra, con filati tersi e penetranti. Calaf è affidato alla generosissima voce di Brian Jadge, dallo squillo potente, una voce ricca di armonici. Jadge si staglia imperioso con il suo mezzo vocale, regalando acuti impressionanti: impossibile non citare «Nessun dorma!» (peraltro, uno dei pochissimi momenti felici anche a livello registico). Ciò che è mancato al Calaf di Jadge è una certa misura, saper dosare un mezzo tanto prorompente; un esempio è «Non piangere, Liù!», dove Jadge avrebbe potuto trovare maggior colore. Alessio Cacciamani è un Timur generoso vocalmente, con un vibrato importante, ma potrebbe essere maggiormente dentro al personaggio. L’imperatore Altoum è interpretato da Piero Giuliacci: se si esclude qualche passaggio sforzato, la performance è portata a casa. Diseguali, invece, le maschere. Il Ping di Haris Andrianos è vocalmente florido, ben fraseggiato. Il Pong di Marcello Nardis assai meno efficace; migliore il Pang di Marco Miglietta. Infine, Mattia Rossi canta gli annunci del Mandarino.

In conclusione, il festival pucciniano di Caracalla non può che definirsi un flop. Una débâcle operistica che si sarebbe potuta evitare curando, seriamente, regia e scene, non dissanguando preziosi fondi, che sempre più vanno scarseggiando in teatro, per ‘orpelli’ (volendo parafrasare il regista) come le proiezioni video, che hanno richiesto ben tre maestranze, peraltro con risultati scarsissimi, o, persino, la presenza di un drammaturgo. Qualche voce, qualche cantante, qualche breve momento riuscito non possono ripagare l’assenza delle più essenziali (e necessarie) ‘strutture teatrali’.


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