L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Händel in bianco/nero

di Francesco Lora

Al Festival della Valle d’Itria, trionfo musicale collettivo per Ariodante, in una vincente lettura che nondimeno paga il fio di una sottovalutazione sulle esigenze della partitura händeliana in fatto di manodopera strumentale, corale e coreutica (nonché di esegesi filologica). Specialistica la concertazione di Federico Maria Sardelli ed eccellente la compagnia di canto con Cecilia Molinari, Teresa Iervolino, Francesca Lombardi Mazzulli, Theodora Raftis, Manuel Amati e Biagio Pizzuti.

MARTINA FRANCA, 22 e 25 luglio 2024 – Non dovrebbe esserci bisogno di presentare Ariodante di Georg Friedrich Händel (Londra 1735), un’opera che nel mondo operisticamente civilizzato è ormai stabile nel repertorio corrente; in Italia, però, s’è finora vista in due soli allestimenti: nel 1981-82 alla Piccola Scala e nel 2007 al Festival di Spoleto, sempre diretta da Alan Curtis, appassionato pioniere tuttavia troppo incline alle forbici. Rappresentata per tre recite dal 22 al 29 luglio, ha fatto ora al caso del Festival della Valle d’Itria, in crisi di coraggio nel risvegliare rarità autentiche (rappresentate quest'anno dal solo Aladino e la lampada magica di Nino Rota). Quella che segue è tutto il contrario di una stroncatura, ma una tripletta di scartavetrate preliminari può essere utile a sgombrare il campo da qualche malumore del critico nonché da problemi particolari, qui, e generali, altrove. (Avviso per il lettore senza tempo da perdere: il primo nome d’interprete compare saltando i prossimi tre paragrafi.)

Prima cosa: Ariodante è un opus magnum. Conta 4 sinfonie oltre l’ouverture, 29 arie, 4 duetti e 3 divertissements danzanti comprensivi di cori. Per limitarsi alla prima donna, Ginevra, e all’eponimo primo uomo, essi cantano rispettivamente 8 e 7 arie, oltre che 3 duetti assieme, contro lo standard di 5-6 arie e non più di un solo duetto. Servono forze ingenti. Tra le sette parti teatrali, solo una non ha arie, mentre le altre ne hanno a volontà e parecchio od oltremodo impegnative sul piano tecnico. Bisogna poi fare i conti con la richiesta di una compagine corale vera e propria a rinforzare il canto dei solisti, di un corpo di ballo pronto a farsi carico delle suites di danze e di un’orchestra che si estende fino a violino e violoncello soli, archi con violini fino a tre parti, due flauti traversieri, due oboi, fagotto obbligato, due corni, due trombe e strumenti del basso continuo. A Martina Franca s’è fatto l’errore di prendere una partitura del genere per un barocco – come si dice, ed è orrendo – di formato tascabile in ogni senso, utile a completare il cartellone senza spendere troppo: dal punto di vista spaziale la si è costretta nella piccola sala chiusa del Teatro Verdi (acustica tuttavia difficile, soprattutto per chi canta) invece di lasciarla sfogare nel cortile del Palazzo Ducale (acustica generosa: ne fa fede il “pasticciato” Rinaldo del 2018, senza allontanarsi da Händel); dal punto di vista esecutivo, s’è ridotto invece all’indispensabile l’organico strumentale, con conseguente smarrimento di un’orchestra impossibilitata ad amalgamarsi, compenetrarsi e ammorbidirsi, mentre una compagine corale e un corpo di ballo non sono nemmeno stati coinvolti. Il conclamato opus magnum, insomma, è stato trattato da operina (l’inverso di quando, nel 2021, al Festival di Innsbruck, un’opera composta per soli archi a parti reali e basso continuo, L’Idalma di Bernardo Pasquini, è stata pretestuosamente ristrumentata, inseguendo la chimera del concerto grosso, fino a rasentare una mole verticale da far invidia alla Frau ohne Schatten di Richard Strauss: il gusto di aggiungere un po’ di polemica).

Seconda cosa, che è il séguito della prima: Ariodante ha un assetto testuale complesso, da riconoscere e assecondare, giacché da un capolavoro simile si ha solo da apprendere. Händel stese la partitura tra la metà di agosto e la fine di ottobre 1734, nella perfetta consapevolezza che prima delle recite, previste all’inizio del carnevale successivo, le solite contingenze della vita impresariale potessero indurre modifiche o favorire migliorie: prassi ordinaria. Nei cinque mesi scarsi dall’inizio dei lavori alla “prima” dell’opera (8 gennaio), avvenne che: la parte di Dalinda passò gradualmente da Contralto a Soprano e quella di Lurcanio da Soprano a Tenore; quella del Re di Scozia vide sostituita la propria sublime siciliana nell’atto II, «Invida sorte avara», con la ben più dimessa aria «Più contento e più felice» (possibili motivi: il primo brano mal si confaceva all’interprete, benché l’autore lo conoscesse bene; piuttosto, la carta della siciliana era stata frattanto giocata in un’altra aria per Dalinda, due sole scene prima); furono aggiunti tutti i magnifici balletti, per circa un quarto d’ora di benvenuto ascolto, con le pagine vocali che li incorniciano. Tolto il pragmatico caso dell’aria del Re, non v’è dubbio che questo assetto finale sia quello nel quale Ariodante brilla come una delle più impressionanti concezioni teatrali e musicali di Händel; nel contempo, rimane difficile nonché superfluo, considerato il costante divenire in un limitato lasso di tempo, circoscrivere versioni dell’opera precedenti a quella d’indubbio arrivo. A Martina Franca, invece, ci s’è incapricciati di presentare, con pretesa scientifica, Ariodante nella presumibile fisionomia avuta prima dell’ultima revisione (avvenuta – si badi – entro poche settimane, e non dopo interi anni): Dalinda è però rimasta soprano, Lurcanio è rimasto tenore e per il Re è stata mantenuta l’aria dimessa anziché ripristinare la siciliana. In sostanza, sono solo stati falciati via i balletti, mettendo a nudo la scivolosità dell’operazione: il finale dell’atto I, infatti, dove il canto incornicia la danza, lascia chiaramente capire che il recitativo «Pare, ovunque mi aggiri», il duetto arcadico «Se rinasce nel mio cor», il coro «Sì, godete al vostro amor» e soprattutto la sua ripresa sono motivati unicamente dal balletto interposto (non da un suo mozzicone non danzato, come avvenuto in Valle d’Itria); similmente, alla fine dell’atto III, il vero coro conclusivo dell’opera non può essere la sontuosa transizione «Ognuno acclami – bella virtute», bensì è, come sigla dell’ultimo e dunque vincolante balletto, il successivo «Sa trionfar ognor». Quest’ultimo a Martina Franca non è stato eseguito, così come nei recitativi secchi sono stati tagliati passi così minuti da far chiedere quale fastidio mai dessero, e quale noia di spettatore casuale siano arrivati a sgravare con i loro tre minuti complessivi di sforbiciate. Più raccapricciante che scandalosa, infine, la riduzione della già menzionata «Più contento e più felice» alla sua sola prima sezione d’aria col da capo, all’obsoleta maniera di Curtis, e censuranda a maggior ragione poiché l’interprete della parte del Re ne stava dando un’esecuzione degna di riscattare il brano dalla sua mediocrità. Siccome poi la suscettibilità di chi scrive può toccare picchi di filologica isteria, si segnala anche il perpetuarsi di un errore, di edizione in edizione, stampata o eseguita, Martina Franca compresa (e con l’aggravante della manodopera italiana, meno scusabile): ‘Ariodante’, il nome nel titolo, è parola non di quattro sillabe (A-rio-dan-te), bensì di cinque (A-rï-o-dan-te); ciò significa che ogni verso il quale contenga questa parola, nel libretto, vedrà la seconda e la terza sillaba sotto note diverse, mentre la prima e la quinta potranno “fondersi”, in dialefe, con la vocale finale o iniziale della parola che precede o segue; il puntiglio di Beckmesser sembrerà arabo, ma l’orecchio del melomane madrelingua percepisce istintivamente quel qualcosa che non quadra, e Händel, italiano d’adozione durante anni per lui decisivi, queste obbligatorie sottigliezze le aveva imparate bene. In cauda venenum: manomettendo l’Ariodante canonico, lo scopo era tornare a un’inafferrabile prima versione o ridurre la spesa d’allestimento di un’opera sottovalutata nelle sue esigenze?

Terza cosa, che è il séguito della prima e della seconda: quello alla base di Ariodante è non un semplice libretto d’opera, ma uno tra i più importanti testi del teatro italiano; eppure pochi se ne mostrano consapevoli, nell’affidarlo a un regista o nel trarne una regìa. Fu scritto da Antonio Salvi, per il teatro della Villa medicea di Pratolino, nel 1708, col titolo di Ginevra, principessa di Scozia, e lasciò interdetta la corte del musicofilo principe Ferdinando, costringendo l’autore a un passo indietro per la brillante opera dell’anno successivo, Berenice, e invitandolo a rilanciare nell’ancora più audace libretto per l’opera del 1710, Rodelinda (questo secondo titolo dice qualcosa?). Il problema era che, più ancora di quanto non sia nei coevi e già riformistici libretti di Apostolo Zeno e Pietro Pariati, in Ginevra c’è parecchia azione, ma le peripezie a ogni costo sono sostituite dall’intima espressione degli affetti. Per dirla in breve: invece di divertirsi tra un colpo di scena mozzafiato e l’altro, il pubblico si trovava a versare inattesi fiumi di lacrime e a incassare spaventi psicologici non preparati; come passare, insomma e con licenza, da film sul genere di Star Wars, Indiana Jones e Mission Impossible ad altri su quello di Love Story, The Bridges of Madison County e Million Dollar Baby. Risultato: il pubblico si trovava a frequentare una scuola sulle emozioni umane onde imparare a viverle e dominarle; a distanza di oltre tre secoli, considerata l’attualità ove sfogarle brutalmente è considerato un valore, si direbbe che il teatro di Salvi e il libretto di Ariodante, nella sua letteralità, rischino di essere più urgentemente utili al pubblico di oggi che a quello di allora. Ciò presuppone beninteso, da parte del regista, un lavoro di sottile comprensione e restituzione, anziché, come sempre più spesso avviene sulle scene liriche e in particolare a proposito dell’opera sei-settecentesca, svilire il dramma originale a ridicolo pretesto asemantico di corbellerie da Regietheater (con disturbante accompagnamento di musica). A Martina Franca è andata maluccio.

Se si eccettua la riduzione ai minimi termini numerici dell’orchestra Modo antiquo, e se si eccettua l’imperdonabile capitozzatura di una partitura da ascoltare integra, l’Ariodante del Festival della Valle d’Itria Franca ha avuto la più invidiabile delle vesti musicali. Il concertatore, Federico Maria Sardelli, possiede l’inconsueta erudizione necessaria a decodificare l’esperantica partitura dello Händel multiculturale, il quale, a seconda dei luoghi, parla il linguaggio musicale italiano, francese, germanico e inglese: lo si coglie nelle inégalités ritmiche, nelle vie dell’ornamentazione e nella naturale speditezza del passo, nonché ovviamente nell’astensione dalle pagliacciate – tamburelli, nacchere e campanelli aggiunti, ritornelli strumentali goffamente riscritti – che caratterizzano il lavoro di altri direttori affetti da pochezza d’intendimento e conseguente, rivelatorio, catastrofico horror vacui. Fin troppo s’è parlato e scritto del saggio non coinvolgere controtenori nella presente operazione, ma qualcosa può essere aggiunto anche qui: è vero che essi non avevano impiego nell’opera coeva, vista l’esaustiva manodopera di cantanti castrati e donne en travesti; è falso – le donne lo dimostrano – che essi siano oggi necessari per conseguire verosimiglianza scenica e varietà timbrica. Soprattutto: i normali limiti della vocalità controtenorile, in fatto di estensione, qualità timbrica e risonanza, non si confanno alle esigenze della scrittura operistica settecentesca, e a guidare il ricorso al controtenore è oggi non tanto la volontà del giusto, determinato dalle evidenze della scrittura musicale, quanto quella dello strano, indulgente a una qualsiasi vocalità che non sia femminile; esistono le eccezioni, che appunto sono tali: Franco Fagioli per il virtuosismo senza limite, Carlo Vistoli per superiorità tecnica e stilistica; nella maggior parte degli altri casi, l’acclamazione del dilettantismo non giova alla reputazione di chi si entusiasma.

La lettura musicale mette misericordiosamente all’ombra quella teatrale, la quale ha bianche, eleganti, ortogonali e atemporali scene di Herbert Schäfer, costumi neri di Vasilis Triantafillopoulos – con i soliti cappotti; ma piace la rottura generata dal bianco nuziale per Ginevra – nonché, eccoci, la regìa di Torsten Fischer, che cade ovunque la si attenda al varco: unico intervallo abusivamente piazzato a metà dell’atto II, con danno dei tempi originali di sviluppo drammaturgico; solita riottosità tedesca rispetto all’analizzare compassionevolmente gli infiniti e trascoloranti toni dell’umano grigio, per concentrarsi soltanto sull’estremo, gratuito, indotto bianco/nero di stupri, pistole e violenze in scena; lavoro con gli attori disinvolto nell’azione dei recitativi, complice un’eccezionale prestanza della giovane compagnia di canto, ma impacciato nella stasi delle arie, dove un’idea registica deve saper occupare il tempo senza scadere in retrogusto da sketch; fondato sospetto, infine, che l’artista non conosca adeguatamente la lingua italiana e la sua retorica, al cospetto di un libretto-capolavoro nel quale ciascuna parola obbliga all’analisi psicologica: qui Ginevra canta l’aria «Volate, amori» e illustra nel contempo la propria sagacia battendo immaginarie alucce, didascalicamente, come potrebbe avvenire nella bambinesca autogestione registica e nella limitatezza linguistica straniera di un conservatorio mitteleuropeo. Suvvia, Torsten, suvvia!

All’esatto inverso, capita qui, per la prima volta nella storia di Ariodante, il miracolo di una compagnia di canto quasi tutta di madrelingua italiana o comunque interamente naturalizzata, grazie alla quale non si perde una sola parola, prosodia e retorica corrono spontaneamente con pesi perfetti e la corrispondente scuola di canto fa strame della concorrenza internazionale: timbri fragranti, emissione appoggiata e agilità sgranata, come avviene con chi giunga a Händel esibendo la patente di Rossini. Cecilia Molinari, come Ariodante, lascia a bocca aperta in recita, per l’istintiva simpatia – leggi: iperbolica tecnica – con la quale addomestica la vertiginosa ed enciclopedica parte destinata a Giovanni Carestini, l’unico rivale mai sinceramente temuto dal Farinelli; nei giorni successivi, a ripensarci, si sprofonda in una nostalgia nera e nel senso di colpa di aver vissuto quell’esperienza con l’illusione della ripetibilità. Lo stesso discorso va invece ripetuto intorno al Polinesso di Teresa Iervolino, vero e proprio manuale di come debba essere attuato il ruolo del malvagio, ossia all’insegna di una vischiosa insospettabilità anziché di modi da teppistello: recitativi da grande teatro di parola, dunque, oltre che un timbro di velluto, un’assertività tremenda e una coloratura elettrizzante, degni dell’odierno massimo contralto italiano. Ben assortite la Ginevra di Francesca Lombardi Mazzulli e la Dalinda di Theodora Raftis, l’una incisiva, forte, femminile, di un commovente realismo finora negato alle riproposte in età contemporanea, l’altra vaporosa, ingenua, spensierata, dunque abile nel dar luogo a un orizzonte caratteriale in scintillante contrasto. Timbro da sogno, fraseggio forbito, comunicativa immediata e articolazione d’inedita energia nel Lurcanio di Manuel Amati. Finalmente un baritono anziché un basso nella parte del Re: ne guadagnano la morbidezza di linea e la sua continuità di registro, soprattutto se l’interprete è il sensibile e dovizioso Biagio Pizzuti. Puntuale Manuel Caputo come Odoardo (la parte senza arie). Trionfo musicale collettivo.


Vuoi sostenere L'Ape musicale?

Basta il costo di un caffé!

con un bonifico sul nostro conto

o via PayPal

 



 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.