L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mozart, la Bartoli e due colpi di Stato

di Francesco Lora

La clemenza di Tito passa dal Festival di Pentecoste di Salisburgo a una ripresa in quello estivo, con una regìa che ha la mano geniale di Robert Carsen, con una concertazione, di Gianluca Capuano, che segna un gesto di rottura, e con una compagnia di canto nella quale fanno scuola due glorie del canto all’italiana: Cecilia Bartoli e Ildebrando D’Arcangelo.

SALISBURGO, 5 agosto 2024 – Spettacolo centrale dello scorso Festival di Pentecoste di Salisburgo è stata La clemenza di Tito di Wolfgang Amadé Mozart, in un nuovo allestimento scenico impreziosito dal debutto scenico di Cecilia Bartoli nel ruolo del primo uomo Sesto, e con una regìa di Robert Carsen, che ha fatto assai scrivere di sé senza però essere sempre còlta nei suoi scopi fondamentali. Ora che la produzione è stata ripresa per ulteriori sei recite, dal 1° al 13 agosto, durante il Festival estivo e ancora nella Haus für Mozart, non sarà dunque fuori luogo dirne ancora qualcosa, e tenere viva la memoria, così, di una lettura degna d’interessare oltre le due recite degli scorsi 17 e 19 maggio.

Quanto alla regìa di Carsen, è odiosamente traditrice, recando pur sempre – che l’ispirazione ci sia o no – la mano di un genio. Attraverso i primi 22 numeri musicali sui 26 che costituiscono l’opera, si azzarderebbe – cioè – che la ristrutturazione drammaturgica meni il can per l’aia, tra scontatezze, provocazioni e pretestuosità, senza che un’idea forte emerga e tenga legato il tutto; poi, dal rondò di Vitellia in avanti, lo spettatore riceve la chiave di lettura che svela retroattivamente il profondo senso teatrale di quanto fin lì condotto. Detto in breve e con soluzione data: Vitellia è identificata come una leader di partito conservatore, che si trova all’opposizione e vuol mostrarsi liberale; Tito Vespasiano, in modo complementare, è identificato come un leader di partito progressista, in quel momento al governo; la linea da lui tenuta spiega una società surreale ove la fluidità di genere si manifesta senza ostacoli: Sesto e Annio hanno nomi e abiti maschili, ma sono in verità due signore, l’una invaghita della donna forte della destra politica, l’altra safficamente fidanzata con la collega Servilia; nel primo colpo di Stato, quello contemplato nel libretto di Pietro Metastasio e Caterino Mazzolà, Vitellia si serve in modo fallimentare di Sesto; nel secondo, introdotto mimicamente da Carsen, ella getta la maschera della vocazione neofascista e reazionaria, corrompe a suon di mazzette l’esercito e l’antagonista Publio, quindi fa arrestare il manipolo omosessuale, fin lì da lei falsamente tollerato, mentre Tito cade da martire sotto i colpi dei militari, sui versi stessi ove prega che gli sia tolta la vita allorché da lui non venga più il bene dello Stato. È un messaggio forte, con scene e costumi, di Gideon Davey, che goffamente tentano di evocare spazi e vestiario italiani, tra bandiere tricolori, ma alludono tanto tacitamente quanto chiaramente a Giorgia Meloni nella rappresentazione visiva della prima donna. Quanto poi a Tito e alla sua lungimiranza, pare che a Carsen non venga in mente un politico italiano nel quale specchiarlo: e il messaggio diviene, così, ancora più affilato.

La lettura musicale è di non minore interesse. Gianluca Capuano dà regolarmente adito a sante quanto comiche ire dello scrivente, soprattutto quando esegua la letteratura che va da Claudio Monteverdi a Christoph Gluck: in quel caso, infatti, egli sembra puntare dritto al farlo strano anziché al farlo giusto, dando luogo a soggettive soluzioni di fantasia rispetto a partiture le quali, al contrario, sono state nel frattempo scientificamente decodificate e faticosamente restituite a un’indubbia esegesi testuale e a un’esplicativa prassi esecutiva. Il caso di Mozart, mai uscito dal repertorio e impercettibilmente riadeguato al sentire di ciascuna epoca, è però differente: invita pertanto a un gesto di rottura rispetto alla corrente attualità. Capuano, cioè, partecipa in prima linea, con questa sua Clemenza di Tito, a scoperchiare il vaso di Pandora dell’interpretazione mozartiana, assuefatta a indiscussi modelli apollinei di tradizione, i quali possono banalizzare oltremodo la portata e la varietà d’idee. C’è un fatto macroscopico: il Mozart fin qui travestito da galante a tutti i costi sbotta, con Capuano, in un benvenuto, dichiarato, credibile Sturm und Drang, già proiettato verso l’età romantica e napoleonica; un Mozart dal quale non si vorrebbe più tornare indietro. E c’è un fatto più sfuggente, conseguenza del predetto: profili agogici, dinamici e soprattutto fraseologici rifuggono i terrazzamenti e il metronomo, per aderire invece, in modo imprevedibile, ma in verità realistico, al corpo e al passo delle parole e degli affetti.

Indicare il problema non significa peraltro avere in tasca la soluzione, e meno che mai quella che tenga ammansito il critico su ogni fronte. A lungo andare, quel suono d’orchestra richiesto ai Musiciens du Prince, ricercatamente brusco, barbarico, precipitoso e disordinato, induce il sospetto di una possibile banalità, ossia che a ispirarlo sia non tanto il testo scritto quanto il volervi evocare sopra una dura storia. È insomma, forse, come far credere – in una maniera poco sfumatamente italiana e piuttosto punitivamente tedesca – che le cose belle vadano espresse con modi belli e quelle brutte con modi brutti, senza vie di mezzo, come se l’orrendo martirio di un santo pretenda d’essere istoriato con la merda – per dirla col Giovan Battista Marino della Murtoleide – e la Madonna dei pellegrini del Caravaggio vada invece snobbata per l’aspetto popolano dato alla mater Dei. Altre cose spiacciono, o piacciono poco o sotto condizione. C’è, per esempio, il solito horror vacui, che fa agire in una stessa buca d’orchestra il clavicembalo e il fortepiano, che fa intervenire in forma concertante la tastiera oltre il limite di guardia e che preordinando ogni effetto cassa la naturalezza mediante il calligrafismo. Ci sono, per ulteriore esempio, tagli nei recitativi secchi, a dispetto non tanto del collaboratore Franz Xaver Süssmayr, che dignitosamente li stese per Mozart, quanto della pregnanza teatrale metastasiana, e c’è la colossale scemenza – una cattiva idea di Carsen, da rispedire al mittente? – di trasformare il primo recitativo dell’atto II in un dialogo parlato, utile soltanto a palesare la differenza tra un attore professionista e un cantante volonteroso. In tanto lavorio del concertatore, tra ciò che persuade o no, sorprende infine che minimo spazio sia dedicato all’ornamentazione delle parti vocali – solo l’arietta di Servilia coglie l’occasione di copiose variazioni – e che a un’orchestra tanto aggressiva sia accostato un coro, quello del Canto d’Orfeo, preparato sì, ma troppo flebile nel confronto.

Nella compagnia di canto viene subito al pettine l’inadeguatezza di Alexandra Marcellier e Daniel Behle alle parti di Vitellia e Tito, che pure non nascondono le loro onerose pretese: con timbri non preziosi e linee non immacolate, entrambi faticano sul versante estensivo e virtuosistico (non solo il Re sopracuto, ma anche i Si acuti sfiorati con circospezione da lei; le agilità della terza aria tenorile, che schiudono il maldestro naufragio di lui); maltrattano poi a tal punto i versi metastasiani, da costringere persino chi li conosca a memoria, per raccapezzarsi, a seguire i sopratitoli in traduzione inglese e tedesca. Impietosa pietra di paragone, quanto a stile, timbro, risorse, prosodia, pregnanza e scioltezza, diviene allora la compresenza di due tra i massimi cantanti italiani: la Bartoli e Ildebrando D’Arcangelo. Nel Sesto di lei, come pure in altre recenti apparizioni sceniche e concertistiche, si nota con onestà l’avviato impoverimento di smalto, energia, appoggio e risonanza: se il vicino di posto ha il respiro pesante, occorre già tendere l’orecchio verso la scena; eppure si riconosce sempre la regina del canto che più di ogni altra, nell’ultimo secolo, ha fatto scuola di inesaustibile rifinitezza espressiva, anche a costo di sconfinare in un’apparente affettazione, e nel contempo ha traslato oltre le presunte colonne d’Ercole, ai nostri giorni, le facoltà virtuosistiche della voce umana: se questo di Salisburgo non è il massimo Sesto mai ascoltato, rimane comunque quello cui portare la massima gratitudine. Quanto al Publio di D’Arcangelo, uno tra i primi bassi del mondo, il discorso può essere brevissimo: lusso inaudito e spudorato, per sfarzo vocale e sagacia scenica, in un contesto che ha da temerne. Ciò non toglie che Anna Tetruashvili, come Annio, s’imponga per inattesi smalto e volume nelle due arie dell’atto II, e che Mélissa Petit, Servilia incantevole per vaporosità verginale già nel duettino con la precedente, torni a incantare nella penultima, ninnolesca aria dell’opera.


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