Beethoven e le sue sinfonie (II)
di Stefano Ceccarelli
Prosegue e si conclude, all’interno del cartellone estivo dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, l’integrale delle nove sinfonie di Ludwig van Beethoven sotto la direzione di Daniele Gatti. Questa è la recensione delle ultime due serate (25 e 27 giugno), dove vengono eseguite la Sesta, Settima, Ottava e Nona.
Roma, Gatti/Sinfonie di Beethoven (I), 18-20/06/2024
ROMA, 25-27 giugno 2024 – Il 25 giugno il maestro Daniele Gatti esegue, con l’orchestra ceciliana, due delle sinfonie più amate di Ludwig van Beethoven: la Sinfonia n. 6 “Pastorale” e la Sinfonia n. 7. La Pastorale presenta delle peculiarità inconfondibili: «la Sesta sembra una sinfonia taciturna, una musica che sembra più ascoltare che affermare, in una sorta di beatitudine di esistere. E l’elemento discriminante è appunto il ‘sentimento’ della natura; per Beethoven, che viveva in una popolosa città ai primordi della rivoluzione industriale, la campagna non è una sede come un’altra, ma un bisogno spirituale, è la liberazione dalla quotidianità degli affari, dalle imposizioni e dagli impegni minuti, e la sede propizia per ascoltare voci che rimandano a realtà più intense, superiori» (parole di G. Pestelli, dal programma di sala). Come ho già avuto modo di notare (leggi la recensione), l’idea di fondo di Gatti è quella di un Beethoven ben scontornato: i suoi gesti sono sintetici, portati a definire un’agogica rigorosa, a tratti persino muscolare, sottolineano sempre con efficacia i momenti dello sviluppo del pensiero musicale di Beethoven. Caratteristica precipua di Gatti è l’uso delle variazioni agogiche in funzione della sottolineatura dei passaggi: spesso rallenta il tempo, per poi accelerare più decisamente, creando una dinamica certamente d’effetto, che crea indubbio movimento. Altra peculiarità è quella di differenziare i volumi delle compagini orchestrali, per far brillare meglio la tavolozza dei colori beethoveniani. Tutto ciò si traduce in una Pastorale che indulge poco nella mera contemplazione estatica, ma che vive molto delle nervature ritmiche del pensiero beethoveniano, ricercate e valorizzate da Gatti. Il I movimento, che evoca il “risveglio di sentimenti lieti all’arrivo in campagna”, è gioiosamente incalzante, con momentanei rallentamenti agogici, guizzi e un’attenzione cromatica al rapporto fra archi e legni («il suono della Pastorale: soavemente raccolto, mite, per lo più giocato fra le velature degli archi e la briosità dei legni», scrive Pestelli). Il II, l’Andante molto mosso, rispetto all’agogica tradizionale è decisamente spedito: non stupisce, dato che Gatti ci ha abituato a movimenti ‘lenti’ di polso. L’immagine del ruscello si coglie nella sua liquida rapidità, dunque, senza che, però, ciò comporti uno sfibramento del suono – da notare, poi, la resa estremamente realistica dei tre uccelli (usignuolo, quaglia e cucù) da parte di flauto, oboe e clarinetto, che sacrificano la mera bellezza del suono in nome dell’imitatio naturae. Il III movimento è quello in cui la partitura incontra meglio l’ethos della direzione di Gatti: l’Allegro evocante il festoso raduno di contadini è un tripudio di colori, di freschezza coreutica, magnificamente reso. Il momento più vivido dell’intera Sesta, però, è probabilmente il Temporale, che Gatti introduce con un crescendo d’effetto, per far esplodere con incredibile energia la violenza delle folate degli archi, impastate degli ottoni e delle grida dei legni. La Sesta di Gatti si chiude con un Allegretto luminoso, che non concede indugi, ma si dirige deciso verso la conclusione.
Il secondo tempo è occupato dalla Sinfonia n. 7, senza se e senza ma quella più riuscita nella resa di Gatti. La Settima, infatti, è pura danza, puro spirito d’energia ed incontra, dunque, il carattere precipuo della sensibilità del direttore. La Settima non presenta quasi mai un momento di stasi, di contemplazione, ma sostiene un discorso ritmico che si evolve lungo i quattro movimenti: un’ “apoteosi della danza”, com’ebbe a scrivere felicemente Wagner. Gatti si trova nel suo, iniziando con un vivido, geometrico I movimento: al Poco sostenuto segue un Vivace che è puro dinamismo, sostenuto da un suono orchestrale impeccabile, il quale si mantiene mai pesante, ma sempre denso (secondo il gusto volumetrico di Gatti – ne vedremo un altro mirabile esempio nella Nona). Per fare un esempio, si potrebbe notare quanta differenza ci sia fra il senso agogico di un Kleiber, che pure legge lo spirito coreutico di Beethoven, essenzialmente, nella sua bellezza estetica, e quello di Gatti, che mira a innervare la musica di vigore. Stesso dicasi dell’Allegretto (II), pura pulsazione che porta con sé un senso di «macerata elegia» (Pestelli), ma ancor di più del Presto, ovvero lo scherzo, così ben giostrato da Gatti nei giochi di volume e nel rigoglio ritmico – stupendi i falsi finali, le riprese ex abrupto. Vigore e dinamismo che raggiungono la loro apoteosi nel vorticoso Finale, una cavalcata dionisiaca, scatenata, che fa esplodere fragorosi applausi in sala.
Si giunge, alfine, alla quarta ed ultima serata, che chiude il ciclo: il 27 giugno, in cui si eseguono le ultime due sinfonie. Pregevole la resa dell’Ottava, un ritorno beethoveniano ad un linguaggio ironicamente settecentesco, memore in primis della lezione di Haydn. Essendo stata l’Ottava composta assieme alla Settima, si trova a compartecipare di quel dionisismo di cui si è già parlato, mitigato da un filtro ironico, scanzonato. Gatti interpreta questo sentire, ancora, esaltandone la pura cifra ritmica. L’Allegro vivace e con brio (I) è ben letto nella sua opposizione fra una certa magniloquenza (le sortite dei timpani) e gli elementi divertenti, ironici, come certi passaggi degli archi e gli interventi del fagotto. Ma il gusto settecentesco raggiunge la sua acme nell’Allegretto scherzando (II), delizioso nella sua impalcatura di legni puntati che scherzano con le frasi degli archi: lo sviluppo è, ancora, reso assai vivido dalla sensibilità di Gatti. Robusto, corposo il Tempo di Minuetto, nelle sue frasi portanti una sorta di bonaria, tronfia parodia della celebre danza. Gatti è abile a leggere il Finale nella sua pura essenza di «una corsa di una ‘caccia’», in cui «Beethoven riprende i rapporti con i finali giocosi di Haydn, con la loro contagiosa allegria, soffermandosi su note a volte estranee, sorprendenti, fingendo di sbagliar strada solo per ripiombare a sesto nel pieno dell’argomento».
L’intero ciclo non può che chiudersi con la Nona. Gatti, fin dalle primissime battute dell’Allegro ma non troppo (I), mostra tutto sé stesso: marcata verve agogica, accelerazioni nette (ma mai eccessive) nell’esecuzione degli accordi che costituiscono le giunture portanti di questo movimento, equilibrio volumetrico nella gestione delle sezioni strumentali – amministrando sapientemente i volumi per compagini, il direttore riesce a dare un senso di pieno, sfrondato di pesantezza. Splendidi, però, anche i momenti più aerei, quelli in cui gli accordi dei legni sospendono l’atmosfera con gli archi che disegnano cellule spezzate, simbolo, quasi, dell’origine di ogni suono. Rutilante, iridescente lo Scherzo (II), figlio dei momenti più ispirati della Settima (come pure dell’Ottava), uno Scherzo, certo, titanico, rispetto agli altri. Gatti soppesa tutti i passaggi: il suo non è uno sfrenare l’orchestra per il gusto della baraonda, ma cavare da ogni pagina l’irrefrenabile energia della scrittura beethoveniana – che si amplifica, naturalmente, grazia all’elaborato sviluppo. Coerentemente con il resto dei movimenti lenti delle precedenti sinfonie, anche l’Adagio molto e cantabile, momento di pura stasi contemplativa, viene spaginato con una certa qual decisione agogica, non sacrificando, però, quella ricerca di un senso dell’immenso, dell’infinito, che caratterizza questo movimento: Furtwängler amava ‘stirare’ le linee degli archi fino all’estremo, Gatti preferisce contenere i volumi, compattando il tutto e lasciando scorrere la scrittura beethoveniana. Al di là dei gusti personali, della lettura più o meno tradizionale delle pagine sinfoniche di Beethoven, Gatti dimostra una specchiata coerenza dalla Prima alla Nona, il che rende il suo ciclo coeso e ben architettato, dall’idea alla resa. Il monumentale finale chiude in apoteosi la serata. Il coro ceciliano dona una performance persino migliore di quella dell’altra, recente Nona (leggi la recensione): il suono vocale è più compatto, deciso, voluminoso, in grado di delibare l’intera gamma delle emozioni beethoveniane, dalla gioia incontenibile (le varie riprese di «Freude, schöner Götterfunken» e il solare «Seid umschlungen, Millionen!»), alla stasi contemplativa della potenza divina («Ihr stütz nieder, Millionen?»). L’orchestra esegue magnificamente e Gatti dirige con polso fermo, ma non rigido, esaltando l’abbacinante bellezza della scrittura beethoveniana. Ottimo Jordan Shanahan nell’attacco «O Freunde, nicht diese Töne!»: la sua corda baritonale dona luminosità al centro della voce, con duttile fraseggio. Buono il tenore Bernard Richter, che rende giustizia a «Froh, wie seine Sonnen fliegen», sotto l’iridescente accompagnamento ‘alla turca’. Uno scalino sotto, forse, le due interpreti femminili, Sara Blanch (soprano) e Eleonora Filipponi (contralto), che pure si amalgamano bene assieme e con le controparti maschili. Gli applausi invadono la sala e sono ben più fragorosi di quelli dell’Ottava: parte del pubblico, infatti, è arrivato in ritardo a causa di un traffico romano particolarmente funesto (diversi eventi in contemporanea!), il che non gli ha impedito, però, di godersi il gran finale.