L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Suonando dietro i paraventi

di Roberta Pedrotti

La XII edizione del festival Pianofortissimo & Talenti di Bologna offre l'occasione per un'esperienza d'ascolto alla cieca (il solista si svela solo al termine) quantomai interessante per mettere in discussione e comprendere il nostro rapporto con l'ascolto dal vivo nella sua globalità, sul rapporto fra contesto, vista, udito, aspettative.

BOLOGNA 24 giugno 2024 - Più che di validi artisti – che nelle nuove generazioni non mancano – quello di cui sentiamo una crescente nostalgia è la vera figura del direttore artistico. Non dell'attuale manager plenipotenziario che fa da sovrintendente, procacciatore di sponsor, direttore artistico e chi più ne ha più ne metta (sovente senza far poi davvero bene nessuna di queste cose), ma di chi si metta alla ricerca delle persone giuste da scritturare, ispiri progetti, lo accompagni dalla prima idea all'ultimo calare del sipario. Di chi dimostri coraggio, cultura, inventiva. Se non fosse aggettivo ormai usurato dalle mode lessicali che vampirizzano anche i concetti migliori, diremmo che dovrebbe essere anche visionario.

Un progetto da vero direttore artistico è quello proposto da Alberto Spano nella dodicesima edizione di Pianofortissimo & Talenti. Un progetto che ha un indubbio appeal mediatico, ma che nella sua vocazione di unicità e irrepetibilità, non può nemmeno aspirare a diventare un modello commerciale. È esclusivamente un disegno artistico: evviva!

Il concerto si intitola Il pianista invisibile e prende spunto dalla mitica audizione del giovane Arturo Benedetti Michelangeli nel Concorso di Ginevra in cui i candidati si esibivano dietro una tenda, identificati solo da un numero di fronte a un'illustrissima commissione: fra i giurati, Alfred Cortot esclamò infine “Signori, abbiamo trovato il nuovo Liszt”. Non c'è, però, solo questo episodio a ispirare la serata: a Bologna si ricorda la vicenda, semileggendaria, della giurista Novella D'Andrea, che nel XIV secolo teneva le sue lezioni dietro un velo per non distrarre gli studenti con la sua bellezza. Più di recente, capita di parlare di ascolti alla cieca, dell'ipotesi di concerti in cui si annunci il programma ma non gli interpreti (ne scrisse auspicandoli, per esempio, Giordano Montecchi). Ora, ci troviamo di fronte a un impaginato che più generalista non si può: Scarlatti, Beethoven, Debussy, Chopin. Insomma, un repertorio per il quale non c'è specializzazione che tenga: ogni pianista ha studiato questi pezzi. Nessuna possibilità di dedurre dalla scaletta almeno una rosa di nomi fra cui individuare la misteriosa figura che si muove dietro i paraventi nel cortile dell'Archiginnasio di Bologna. Potremmo, se come Turandot volessimo ad ogni costo carpire il nome dell'Ignoto/a, metterci a compulsare tutti i programmi concertistici di questi giorni per escludere i già impegnati altrove. Oppure fare qualche valutazione di massima: difficile che si tratti di una superstar, ma non dev'essere nemmeno un semisconosciuto. Ma vale la pena di lanciarci in queste elucubrazioni preventive? No, perché ci sono aspetti molto più interessanti su cui concentrarci per trarre frutto da quest'esperienza.

Innanzitutto, viene negata la teatralità dell'evento concertistico. Non si può negare che il modo di porsi, il portamento, il gesto, l'aspetto stesso dell'interprete, così come il luogo, le luci e tutto quello che non è direttamente musica, facciano parte della percezione del concerto. Anche questi paraventi illuminati hanno una loro valenza scenografica, ma statica, sicché difficilmente attrarrà l'attenzione per tutta la serata. Ci si mette semmai il meteo a movimentare il tutto, sfogando a metà programma un esuberante temporale estivo, che tuttavia non distoglie troppo l'attenzione. Sì, perché quello che colpisce è proprio il permanere vivo della partecipazione del pubblico di fronte a una tenda illuminata che non lascia nemmeno intravvedere l'ombra di chi suona. Merito, anche, di un programma ben calibrato per brani e tempi.

In secondo luogo, ci troviamo orfani di un contesto, di esperienze dirette o informazioni pregresse che possano orientare un'aspettativa. Sapere di trovarsi di fronte a un giovane o a un musicista esperto, a un cultore del barocco storicamente informato o del grande concertismo tardoromantico, per esempio, già indirizza le nostre categorie di ascolto e di analisi anche più di quanto razionalmente non ammetteremmo. Né deve essere considerato per forza un male, giacché sapere chi abbiamo di fronte può consentire di valutarne anche il percorso e le scelte. Tuttavia, l'esperienza alla cieca ci stimola a un'attenzione diversa, non ci consente zone di conforto, ci fa valutare e anche mettere in discussione categorie. Una delle domande più frequenti e immediate, per esempio, è “sarà uomo o donna?”, ma di fatto se i poli del maschile e del femminile fanno parte del nostro modo di pensare (pensiamo alle cesure nella metrica definite per l'appunto con la metafora del genere), bisogna anche constatare che essi si possono presentare in varie gradazioni e sfumature che non corrispondono in maniera automatica all'identità dell'esecutore. Chiedersi “uomo o donna” sembra semmai l'espressione del bisogno di immaginare un volto per chi sta dietro il paravento, oltre che, magari, confortare un sistema di ipotetico di riferimenti culturali.

Del tutto privi di appigli concreti, dunque, ci dobbiamo concentrare su ciò che ascoltiamo con un'attenzione diversa da solito. Non necessariamente migliore e peggiore: differente e per questo preziosa per ragionare sul nostro modo di rapportarci alla musica.

Ascoltiamo un tocco molto nitido, bei trilli sgranati con scioltezza, la rotondità del suono che non viene mai meno può adattandosi allo stile di ogni autore. È senz'altro un pianista dalla tecnica sicura, ma che si distingue soprattutto per il buon gusto che esprime con invidiabile sprezzatura. Ne è subito un esempio la cura certosina delle dinamiche nelle Sonate di Scarlatti, che godiamo pienamente senza perdere un dettaglio della costruzione formale in un fraseggio di affabile e nobile poesia. La Sonata n. 5 op. 10 di Beethoven è introdotta con sfumata delicatezza (forse questo fa dire a qualcuno che potrebbe essere una donna?) per poi acquistare vigore verso il Prestissimo finale. In Debussy (Cinq préludes dal Prémier Livre) ritroviamo, diversamente declinate, la sensibilità coloristica e il controllo dinamico ammirato soprattutto in Scarlatti e l'Andante spianato e Grande Polacca brillante di Chopin conferma in chiusura l'agilità luminosa, fluidissima, una personalità ben attenta all'equilibro fra eleganza e comunicativa, fra leggerezza e incisività. Così, fra gli applausi, arriva il momento di svelare il nome del Pianista invisibile. Abbiamo giocato a sciogliere l'enigma, ma soprattutto ci siamo potuti interrogare sull'ascolto, sul nostro approccio al concerto, alla musica, all'interpretazione.

Quando Olaf John Laneri si presenta finalmente al pubblico gli siamo grati per essersi messo in gioco (anche per chi suona, peraltro, un diaframma che lo divide dal pubblico può essere straniante) oltre che per il bel concerto, gustato solo per quel che sentivamo senza scorrere il suo curriculum, ripensare alla sua discografia o ad ascolti precedenti. Ora il bis (ancora Chopin, una Mazurka) arriva a viso aperto e gli applausi sono visibili, oltre che meritati.

Lasciamo poi, lentamente, fra mille chiacchiere, confronti e commenti, il cortile dell'Archiginnasio, felici per aver ascoltato un bel concerto, ma ancor più per aver vissuto un'esperienza che fa riflettere e che non potremo ripetere.

foto di Dino Russo


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