Un Barbiere da vedere!
di Stefano Ceccarelli
Dopo La Cenerentola, il Teatro dell’Opera di Roma conclude i suoi festeggiamenti per il bicentenario delle opere romane di Gioachino Rossini con quello che è considerato (a torto o a ragione) il capolavoro assoluto del pesarese: Il barbiere di Siviglia, il motivo per cui perfino Beethoven si congratulò con Rossini (almeno a stare all’aneddotica). La nuova produzione è affidata a Davide Livermore, che propone una mise en scène decisamente geniale, anzi «genialotta». Un Barbiere un po’ gotico, horror, ironicamente giacobino, che termina in un ‘finale manzoniano’ degenere: non ci si annoia mai con Livermore! Dirige Donato Renzetti, che fa egregiamente il suo dovere, con una buona orchestra. Peccato diverse scelte discutibili nel cast: per fortuna abbiamo le ottime voci di D’Arcangelo e della Iervolino. Ottima affluenza di pubblico e grandi applausi.
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ROMA, 16 febbraio 2016 – In queste ere operistiche c’è da aver paura a prendere un biglietto per Il barbiere di Siviglia, soprattutto se lo si conosce assai bene e lo si ama molto. È uno di quei ‘prodotti’ che fanno gola alle masse di melomani, pseudo-melomani, semplici appassionati e sporadici avventori; e, conseguentemente, i teatri ne infarciscono i cartelloni. Molta della sua musica è sufficientemente conosciuta da essere ri-conosciuta e da dare, quindi, un senso di appagamento, un’effimera confortevolezza uditiva, che sterilmente rimane fine a sé stessa. C’è da aver paura, dicevo, proprio perché un Barbiere è un’opera talmente ben calibrata da avere una struttura fragilissima: ci si mette un nonnulla a infrangerla. Per non parlare delle regie: tutte uguali, trite e ritrite, incapaci di elevarsi da una rozzezza intellettualoide – magari trovare un Barbiere realmente rozzo, ché ci si riderebbe almeno su. Invece, la maggior parte delle regie si prende perfino troppo sul serio. Meglio quasi rinunciare al Barbiere per decenni, seppellirlo e rispolverarlo, poi, fra tanti anni, con una consapevolezza e un gusto affatto diversi, proprio per impedire che Il barbiere di Siviglia diventi un prodotto da supermercato.
Fortunatamente, non è il caso di questa nuova produzione firmata Teatro dell’Opera di Roma, che omaggia Rossini riproponendo Il barbiere nel bicentenario della sua première, che avvenne nello storico Argentina nel carnevale romano del 1816. Di carnevali romani ce ne furono, prima di quel 20 febbraio del 1816, un’infinità, e molti altri ce ne sarebbero stati. L’impigrito pubblico di quella storica, ‘fiascosa’, première mai avrebbe scommesso che Il barbiere avrebbe seppellito tutti i presenti; e molti altri, di molte genti e popoli, ne avrebbe del pari seppelliti, per ben duecento anni. Di tutti i Barbiere che mi è capitato di vedere a Roma (2012 e 2014), questa novella versione di Davide Livermore è indiscutibilmente la migliore: eclettica, particolare, sempre vivace. Persino avanguardistica nel gusto sincretico e nell’abilità con cui sa comporre un patchwork mai straniante nella sua pur apparente stranezza, ma anzi sempre vivido. Non è certo facile analizzare una mise en scène come quella proposta da Livermore, che non dà se non poche chiavi di lettura di una regia a dir poco chimerica: mi scuserà se non coglierò la complessità di una regia che ho amato a pelle – e, forse, è la cosa più bella. L’ouverture è assolutamente geniale: Livermore inventa un’elaborata metafora basata sull’animale del topo, allegoria dell’anti-uomo, anzi dell’oltre-uomo (quindi uno Über-Maus vagamente nietzscheano). Proprio quell’animale che colonizzerà la terra dopo la nostra auto-distruzione. Uno spassoso topolino radiocomandato sguiscia fuori all’inizio e alla fine dell’opera, in una Ringkomposition che ne dimostra l’eterno esserci. Dicevamo, le proiezioni dell’ouverture: illustrazioni animate in stile gothic/dark mostrano topolini sempre presenti a tutte le rivoluzioni, da quella Francese in poi. Volano su aerei, si sostituiscono a quadri celebri: ri-colonizzano la storia dell’uomo. Alla colonizzazione dei topi si aggiunge la spassosa animazione delle decapitazioni di tanti leader rivoluzionari e non: Luigi XVI (da dove tutto ebbe inizio!), Hitler, Stalin, Mussolini (a testa in giù!) e tanti altri, decapitati nelle loro migliori pose imbalsamate da orologio da taschino. Col crescendo rossiniano crescono le decapitazioni e le fantasie topesche, fino a arrivare alla totale conquista dell’uomo. Siamo nella più viva e fresca fantasia metaforico/allegorica, appartenente geneticamente al genere comico, fin dalla sua nascita: aleggiano gli Aristofane, gli Eupoli, quelli dei cori animaleschi e dei più bizzarri personaggi nelle più strampalate trame. Poi ecco comporsi in lontananza una casa, gotica nello stile, ma con le finiture decorative di una Spagna arabeggiante. E quest’atmosfera timburtoniana si manterrà fin quasi alla fine: l’atmosfera di Edward mani di forbice (1990), di Nightmare before Christmas (1993), de Il mistero di Sleepy Hollow (1999), di Alice in Wonderland (2010). Rosina ha un aspetto dark; così pure Figaro e il Conte. Don Bartolo finge di essere su una sedia a rotelle e Don Basilio ha un braccio meccanico malfunzionante – dacché miriadi di gags. Tutti i costumi (Gianluca Falaschi) sono ottimi, d’eccellente fattura: richiamano uno stile gothic horror modellato sul Pop surrealism – Rosina ne cambia molti e per la scena della lezione si trasforma in una diva anni ’20. Le scene di esterno si svolgono fuori della villa, davanti a un diroccato muro di cinta; le scene d’interno in un elaborato sistema di stanze e di scale dove i personaggi (anche di contorno, figuranti) corrono o agiscono intorno all’ambiente centrale in maniera quasi escheriana. Le invenzioni registiche geniali sarebbero troppe a elencarsi: la decapitazione del Conte d’Almaviva, reo d’aver affidato a Fiorello la distribuzione di croissants (Ah… Marie Antoinette!); gli sbotti d’ira di Rosina durante la sua cavatina (con tanto di coltellate ai cuscini); il finale I, dall’effetto moviola a quello discoteca; diversi spassosi giochi di prestigio (l’attorcigliamento di Don Bartolo!) ecc. Insomma, Livermore crea un comico mondo dell’horror, zeppo di citazioni, spassoso e autoironico: la regia fila perfettamente ed è, anzi, la vera colonna portante di questa produzione. Il finale poi, che ci catapulta nella più bieca multimedialità contemporanea e nel desolante imborghesimento ‘impantofolato’, con un pizzico di fosforescente glamour anni ’60, è un geniale suggello di una parabola civile umana chiaramente decadente. Ps: i figuranti decapitati che costellano la regia sono tremendamente spassosi.
La direzione orchestrale è affidata a Donato Renzetti. L’orchestra dell’Opera di Roma fa bene il suo mestiere. Renzetti, in generale, palesa una spedita sensibilità rossiniana: leggerezza, tocco, dinamiche azzeccate, con buon gusto. Peccato taluni eccessi volumetrici su timbriche strumentali di contorno, come quelle dei registri inferiori dell’accompagnamento orchestrale, che talvolta appesantiscono certi passaggi; nei concertati e negli assiemi è capitato che abbia un po’ troppo coperto le voci. Fin dalla vivace resa dell’ouverture si fa apprezzare, anche se nel complesso la serata non è stata memorabile.
Peccato per la scelta di qualche voce. La desolante constatazione è che, oggigiorno, molte voci di quelle che si definiscono rossiniane sono di mediocre livello, se non addirittura imbarazzanti. Il Conte d’Almaviva di stasera ne è un’eloquente testimonianza: Edgardo Rocha è inadatto a una tessitura come quella del Conte, irta di difficoltà, che non possono essere certo risolte con un abuso di un falsettone di testa incolore, querulo, belante, privo di appoggio del fiato. Vacilla già dalla cavatina «Ecco ridente in cielo», praticamente già è a mezza voce alla serenata «Se il mio nome saper voi bramate» e continua in questo stato per il resto della serata, con picchi di periclitanti emissioni stonate. Per fortuna non recita certo male e nei duetti (soprattutto «All’idea di quel metallo») fa meglio che negli assoli. Con coraggio si cimenta nell’aria finale «Cessa di più resistere», ma non ha più voce – né, forse, sarebbe andata meglio anche n’avesse avuta. Con quel tipo di emissione o s’è Alva, Araiza, Matteuzzi, o si incorre in questi spiacevoli inconvenienti. Meglio il Don Bartolo di Simone Del Savio, che pur non avendo una nobile voce da buffo sa il fatto suo: peccato che, almeno nella mia serata, abbia avuto qualche spiacevole calo di voce – nella sua aria «A un dottor della mia sorte», un unicum dell’intera produzione rossiniana, d’incredibile difficoltà, nella sezione in Allegro vivace («Signorina, un’altra volta quando Bartolo andrà fuori») quasi non emette voce. Negli assiemiè però ben presente e si fa assai apprezzare come attore.
L’alloro della miglior performance della serata va a Teresa Iervolino, giovane di grandissimo talento e auree speranze. Sostituendo Chiara Amarù indisposta, la Iervolino (che militava nel secondo cast) si è sobbarcata anche di recite non sue, aggravando certo l’impegno. Ma la sua voce corposa, salda, eburnea, dal nobile timbro contraltile, pastosa, ci regala una Rosina freschissima e vocalmente centrata: fin dalla cavatina, «Una voce poco fa», la Iervolino dà prova del suo perfetto controllo della vocalità rossiniana, con le fioriture ben staccate, la spedita verticalità dei registri e il magnifico controllo del fiato. E che dire della sua ottima «Contro un cor che accende amore»? Bravissima: sarà per il suo naturale nerbo che la rende perfetta per i ruoli del Rossini serio. Delizioso il suo «Dunque io son… tu non m’inganni».
Sarà stata l’emozione di cantare un brano impressionantemente famoso, ma nel «Largo al factotum della città» Florian Sempey appare visibilmente sottotono (andando addirittura fuori per un breve tratto); né si riprende molto nel prosieguo. Fraseggia ironicamente, sì, ma a tratti non canta, piuttosto emette una mezza voce perenne: benché privo di un timbro classicamente bello, ciò non toglie che possegga una voce gradevole, scura e piena, con diversi armonici (quando riesca a aprirla completamente). Sicuramente più apprezzabile negli assiemi che negli assoli.
Ottimo il Don Basilio di Ildebrando d’Arcangelo: la sua sensualissima voce opaca, armonicamente ricchissima, vibrata e nerboruta, sa incantevolmente cogliere tutta la macchiettistica ironia del personaggio. La celeberrima «La calunnia è un venticello» è cantata col piglio e il gusto di un vero interprete rossiniano, senza incrostazioni deteriori: il risultato è smagliante.
Buoni i comprimari, in particolare il Fiorello di Vincenzo Nizzardo, dall’emissione chiara e dal caratteristico fraseggio, e la Berta di Eleonora De la Peña, dalla voce chiara e squillante (la sua aria è molto divertente e piacevolmente cantata). Ambrogio è Sax Nicosia, e la parte dell’ufficiale è sostenuta da Riccardo Coltellacci.
Un Barbiere da vedere, certamente: nel senso che è soprattutto piacevole alla vista. L’aspetto performativo (l’opsis di Aristotele, per intenderci) ha certamente la meglio e ammalia lo spettatore, facendo dimenticare all’uditore, invece, qualche carenza.
foto Yasuko Kageyama