Mi manca la voce
La conclusione della stagione d’opera e balletto 2023-2024 del Teatro Massimo di Palermo segna l’occasionale incursione del “Rossini serio” con Elisabetta regina d’Inghilterra a più di cinquant’anni dalle storiche recite con Leyla Gencer. La brillante soluzione per il ruolo Colbran di allora, però, non è destinata a ripetersi.
Palermo, 24 e 27 ottobre 2024 - L’incursione nel cosiddetto “Rossini serio napoletano” non può prescindere dalla soluzione del complesso rompicapo della vocalità Colbran con ciò che offre il panorama vocale dei nostri giorni. Se nel 1971 il Massimo di Palermo seppe venire a capo del problema puntando sulla vincente soluzione di Leyla Gencer (o – per meglio dire – riconfermandola, dopo che uno sciopero delle masse artistiche del teatro comportò la cancellazione dello spettacolo originariamente programmato nel 1970, all’indomani della prova generale), non altrettanto convincenti appaiono le scelte per i cast delle recite dei nostri giorni.
Parafrasando l’incipit di un concertato proprio d’altra opera napoletana di Rossini, la soluzione per la vocalità Colbran dei nostri giorni, in assenza di soprani drammatici d’agilità, oscilla fra la categorie del soprano ex leggero, poi appesantitosi con perdita di agilità e acuti, e quella del mezzosoprano di colore chiaro, dimidiato negli acuti. Parimenti bipolari sono le scelte per i due cast delle recite palermitane che alternano Nino Machaidze alla più ortodossa e convincente Aya Wakizono, immeritatamente collocata quale alternativa. La prima gioca le sue carte vincenti sulla risoluzione personaggio, scontando però non poche approssimazioni nella linea di canto, caratterizzata oltretutto da un legato assai macchinoso e poco fluido, mentre la seconda – in maniera perfettamente speculare – difetta in autorevolezza e per genericità d’accento, rimanendo focalizzata su una più puntuale e precisa realizzazione del canto d’agilità, ancorché con qualche fisiologica asprezza nel registro più smaccatamente sopranile.
Analogamente preferibile come Matilde dal secondo cast è il timbro ingrato di Veronica Marini, pur ben assestata e capace di formidabili agilità, rispetto al colore di Salomé Jicia, non troppo dissimile da quello dell’appaiata Regina, a cui l’accomuna purtroppo anche una certa disinvoltura per non dire indolenza rispetto al dettato rossiniano.
Decisamente meglio vanno le cose sul versante maschile, giacché le soluzioni per i due tenori baritonali risultano di gran lunga più plausibili. Alle prese con Leicester Enea Scala è come di consueto veemente, forte di un’estensione che gli consente un approccio sfrontato con questo tipo di scrittura; rimangono la scarsa avvenenza dello strumento e un gusto non sempre irreprensibile che parimenti, sebbene in diverso rapporto, caratterizzano la prova dell’alternativo Mert Süngü, capace di risolvere in maniera meno convincente le ricorrenti discese al grave, pur con una maggiore omogeneità timbrica complessiva.
Una rivelazione è invece il Norfolc ampio, sonoro, sfaccettato e mellifluo di Ruzil Gatin, forte di uno strumento ben amministrato capace di un’ottima realizzazione anche del canto d’agilità; gli è da contraltare il Norfolc decisamente più “british” e compassato di Alasdair Kent a cui da contraltino la parte sta un po’ larga, almeno nell’introduzione, salvo poi rendersi capace di un gran bel recupero nella grande aria del secondo atto.
Se del tutto trascurabile è il Guglielmo di Francesco Lucii, si fa notare positivamente Rosa Bove nella piccola parte en travesti di Enrico.
Lo spettacolo coprodotto con il Rossini Opera Festival, dove è andato in scena nel 2021, è riadattato senza particolari mutilazioni nello spazio più compatto trasversalmente, proprio dei teatri a pianta italiana. Il rimontaggio di Davide Livermore rimonta fedelmente lo spettacolo già visto anche sugli schermi di Rai5, tutto giocato sulla trasposizione storica dalla guerra di Scozia della seconda metà del 1500 al secondo conflitto mondiale, con la sovrapposizione fra Elisabetta I Tudor, figlia “impura” di Anna Bolena, e la novecentesca Elisabetta II. Alla simpatica trovata di fondo dello spettacolo, funzionante anche grazie all’elevata tecnicalità realizzativa che si avvale delle scene ledwall firmate Giò Forma con le proiezioni di D-Wok degli ironici costumi di Gianluca Falaschi e del disegno luci talvolta un poco troppo aggressivo di Bovey, non possono non rinnovarsi le perplessità destate al ROF nel 2021. Leggi la recensione.
Di pari passo con la cifra della parte visiva Antonino Fogliani prende allegramente il “Rossini serio”, restituito con sonorità generose da una compagine orchestrale dall’organico giustamente ben nutrito. Ma il suono turgido di per sé non basta a realizzare la fastosità di una scrittura quasi da cantata celebrativa che è cifra distintiva di un titolo varato in piena Restaurazione per il ritorno dei Borboni a Napoli; né tantomeno i vorticosi stacchi agogici contribuiscono a scandagliare in profondità l’ambiguità di una scrittura tanto ricercata quanto sottovalutata. Molto buona la prova del Coro, istruito da Salvatore Punturo, che regge il muro di decibel proveniente dal golfo mistico.
Archiviata l’occasionale incursione nella produzione seria del Pesarese, la prossima stagione torna a riservare il solito Barbiere di Siviglia, per il quale non si presenterà quantomeno il problema della voce Colbran.
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