Galassia Stockhausen
di Roberta Pedrotti
Un'intera settimana dedicata a Stockhausen a dieci anni dalla morte è la scommessa vinta dal direttore artistico del Bologna Festival, Mario Messinis, uno dei massimi promotori della musica contemporanea in Italia.
BOLOGNA, 18-22 settembre 2017 - Musica astronica, o anche, in originale, Musique astronique e Astronische Musik. Al di là della fascinazione prepotente e ineludibile che su Karlheinz Stockhausen esercitarono astrologia ed esoterismo, al di là della realizzazione pratica nella creazione di un nuovo universo musicale, l’arte del compositore tedesco può tutta, veramente, essere abbracciata da questa semplice destinazione. Astronico non è astrale, non è astronomico né astrologico, ma partecipa di vari aspetti del campo semantico sintetizzando alea, rigore, ironia, tecnologia e folklore in un unico sistema, in una galassia dalle molteplici, anche opposte, manifestazioni, ma retta da una coerentissima logica interna. Non importa nemmeno che le architetture, i rapporti matematici, le leggi che regolano questo universo siano sempre chiaramente percepite e percepibili, comprese e comprensibili: se ne intuisce sempre l’esistenza, così come s’intuisce un ordine nei fenomeni cosmici quand’anche esso non sia noto, e l’inclinazione personale potrà attribuirlo a confini scientifici ancora da varcare o a un mistico arcano. Il fascino della musica di Stockhausen risiede proprio sul crinale fra scienza e mistero, laddove anche quando s’imboccano i sentieri liberi e insidiosi di un’indeterminatezza (apparente?) vi è sempre la certezza di una meta prestabilita, di permutazioni, alternative e probabilità sempre contemplate e previste dal demiurgo.
Un suggestivo viaggio siderale attraverso la galassia Stockhausen è quello che, a dieci anni dalla scomparsa, ci ha offerto il Bologna Festival in una settimana plasmata come un capolavoro del suo direttore artistico, Mario Messinis, mentore della musica contemporanea in Italia soprattutto, ma non solo, quale storica guida della Biennale Musica di Venezia.
Con il riferimento costante di Alvise Vidolin, a sua volta un pilastro dell’informatica musicale, alla regia del suono, si alternano da lunedì a sabato pezzi vocali e strumentali, diversi livelli d’interazione elettronica e spazializzazione, gli organici più disparati. Prima della conclusione con il fluviale, enigmatico Mantra (cui non abbiamo potuto assistere ma per il quale rimandiamo all’esecuzione senese delle medesime interpreti: leggi la recensione) abbiamo ascoltato Michele Marelli alle prese con due estratti dal ciclo Klang: la Quinta ora Harmonien per clarinetto basso (nel fluviale concerto d’apertura del 18 settembre) e la Sedicesima ora Uversa per corno di bassetto (22 settembre). Due pezzi in cui le possibilità dello strumento sono esplorate come in un viaggio inziatico che coinvolge anche la performance scenica dell’interprete, specie nei piccoli gesti robotici di Uversa.
C’è poi il pianoforte solo, ma vissuto totalmente come strumento aumentato: Vanessa Benelli Mosell (18 settembre), look audacissimo da Yuja Wang bionda, passa con disinvoltura dai tasti alla manipolazione diretta delle corde, al canto e allo schioccare le dita e batter le mani, fra rarefatti lacerti melodici, quasi ridotti al pulviscolo luminescente di una nebulosa e cluster, materici conglomerati di suono in una selezione dai Klavierstücke; Anna D’Errico (22 settembre), pronta anche a calzare guanti ornati da crotali risonanti, libera gli armonici di singoli suoni dalle gabbie di durate e ritmi prefissati in Natürliche Dauern. Nell’espandersi di queste onde che inanellano orbite perfette compaiono man mano piccoli fenomeni luminosi, pointillisme di costellazioni melodiche. Fra le fascinazioni scientifiche ed esoteriche, allora, si affaccia l’alchimia, si affacciano i rapporti fra microcosmo e macrocosmo e gl’intrecci rinascimentali fra armonia delle sfere celesti, astronomia, astrologia.
Quando poi il pianoforte incontra le percussioni e l’elettronica, come in Kontakte (18 settembre, con Andrea Rebaudengo e Simone Beneventi) a questa dimensione si aggiunge il paradosso del perfetto controllo dell’indeterminato, con un meccanismo a orologeria cui non si sottrae nemmeno il movimento libero di idiofoni a suono indeterminato, campane, gong, sonagli… L’ordine rigoroso e sempre sottinteso da Stockhausen si esprime, così, anche nel puro elemento naturale e primordiale, evocato anche come estremo esito dell’elaborazione elettronica del suono sintetizzato artificialmente.
Il ritorno fisico a una natura magica è il perno soprattutto degli Indianerlieder (20 settembre), su testi delle popolazioni native americane e spunti melodici e ritmici che profumano di folklore ma sviluppano anche un percorso d’aumento sonoro, aggiungendo, in ciascuno dei dodici canti, una nota della serie dodecafonica fino al trionfo di completezza che celebra il culmine di un rituale sciamanico. Così lo evocano la sacerdotessa Anna Clementi e il discepolo Nicholas Isherwood (davvero formidabile della sua versatilità vocale, dalle difonie orientali all’emissione del baritono lirico) in un fantasioso caleidoscopio che sfrutta tutti i margini creativi lasciati da Stockhausen ai suoi interpreti, immedesimandosi totalmente, e non senza gustose autoironie, nella dimensione magica e straniante della parola e del suono.
Alla presenza di una storica musa di Stockhausen come la flautista Kathinka Pasveer, due sono stati i momenti dedicati allo strumento. Da un lato, la sera del 21 settembre Cecilia Vedrasco ha fatto cantare, quasi recitare il suo strumento fra lampi di melodia, sussurri, sospiri, versi e prosa nell’evocare le dimensioni edeniche e sfuggenti di Paradies, Ventunesima ora da Klang. Dall’altro, nel pomeriggio del 19 settembre Elena Gabbrielli ha offerto alcuni estratti da Il canto di Kathinka o Requiem di Lucifero (altro pezzo dai sottili sottintesi esoterici nel richiamo alla luce dell’angelo caduto e nella scomposizione del nome della dedicataria in Kat-think-A, il gatto pensa all’alfa, all’origine), che sta studiando proprio sotto la guida della prima interprete: al suo fianco nell’illustrare il pezzo, il musicista informatico Marco Gasperini ha aperto suggestive prospettive sul tema dell’interpretazione della musica digitale. Infatti, se istintivamente possiamo pensare all’elettronica come a qualcosa di fissato in maniera immutabile dall’autore, in realtà non solo la gestione delle piste e della spazializzazione stimola diverse soluzioni di volta in volta, ma soprattutto l’evoluzione delle tecnologie impone una continua trascrizione che è anche, necessariamente, un’interpretazione: un codice scritto per un computer dei primi anni Ottanta non può essere letto così com’è da apparecchi odierni e si pone dunque il problema o della sopravvivenza di tecnologie desuete o dell’adattamento del testo a nuovi strumenti, in maniera non troppo diversa nei principi da quanto avviene per le esecuzioni storicamente informate del repertorio barocco.
L’ascesa angelica e religiosamente sincretica si concretizza anche in Freude per due arpe (ancora da Klang, Seconda ora), in cui Marianne Smit e Miriam Overlach (con Gertru Pasveer alla regia del suono) si uniscono come un unico essere, umano e sovrumano, superumano nel canto e nel suono, raddoppiati fra l’inno “Veni Creator Spiritus” intonato fino a mutarsi in un mantra di fonemi sacri svincolati dal significato primo, distillati ed elevati a un livello superiore, e il riverberarsi ancora una volta materico e pulviscolare, come una nebulosa in cui si condensano nuove stelle, delle due arpe, talora perfino percosse con imperiosa violenza.
Questo processo di astrazione e distillazione del testo tocca, però, il vertice il 22 settembre nella prima esecuzione italiana di Unsichtbare Chöre (Cori invisibili), frontiera del concetto stesso di esecuzione, perché il materiale vocale vero e proprio, in realtà, è stato registrato su diverse piste da Stockhausen stesso con il Coro di Colonia, e la performance hic et nunc consiste esattamente nella spazializzazione, nella regia del suono, nel lavoro di ingegneria elettronica per la sua riproduzione nello spazio. L’esito, in questo infrangersi di versi sacri in tedesco e in ebraico, inni all’Apocalisse non come giudizio universale, ma come trionfo del bene e della pace, è un impressionante trascendere il concetto stesso di tempo e spazio così come noi li conosciamo. Accresce la suggestione la penombra in cui la sala di San Filippo Neri è immersa, con sono un raggio di luce a illuminare parzialmente la cornice ovale al centro dell’abside incrociando la mano di un putto in gesso, che si proietta così come monito divino.
È scomparso da dieci anni, Karlheinz Stockausen, ma a sottolineare l’attualità di una delle figure più singolari e influenti della musica del XX secolo Mario Messinis ha ben pensato di accostare ai suoi brani alcune prime esecuzioni di autori italiani viventi. Abbiamo così apprezzato l’elaborazione sonora di Stefano Gervasoni in Prima traccia per corno di bassetto e live electronics (solista Michele Marelli) con la sua alternanza espressiva fra lirismo, severità e spiritosissimi guizzi paperineschi. La stessa sera del 18 settembre si è ascoltato anche Un giardino per Annamaria per arpa amplificata (solista Paola Perrucci) dedicato alla flautista e grande promotrice della musica contemporanea Annamaria Morini: il pezzo si distingue per una sua sofferta tragicità, quasi il giardino sia quello florido ma intimamente doloroso e malato descritto dal Leopardi nello Zibaldone, quasi il tocco sull’arpa fosse quello di un aedo feroce e visionario.
Al canto sciamanico dei nativi americani degli Indianerlieder si è felicemente accostato Dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo per voce e live elettronics di Luigi Sammarchi, con la voce del soprano Sonia Visentin a far da perno a un suggestivo riverberarsi di echi da Pindaro a Dino Campana, come una nube di inafferrabile poesia. Quindi, il 21 settembre, Il tempo del cantare per flauto, ottavino e live electronics di Adriano Guarnieri, affidato a Cecilia Vedrasco, si è posto in efficace rapporto dialettico con la scrittura di Stockhausen per medesimo organico, esprimendo il fremito e l’anelito al canto che si libera dalla prosa strumentale e dall’espressione di singole cellule e sperimentazioni sonore. Adagio estatico per viola sola di Alberto Caprioli (e Alberto Belli a impugnare l’archetto) tiene fede al suo nome nel dipanare un vero atto d’amore al lirismo, e a una cantabilità soffusa e sospesa, nel linguaggio della contemporaneità. Recentissimo, anche se non inedito è and sing until he drop per corno di bassetto spazializzato (2010) di Marco Stroppa, con cui il 22 settembre Michele Marelli offre un ulteriore esempio delle possibilità del suo strumento, sia nella teatralità del movimento sul palco e della sua restituzione elettronica, sia nel potenziale timbrico ed espressivo, fra lampi luminosi e squarci dolorosi.
Da segnalare, abbinato a Mantra nella serata del 23 settembre anche la prima assoluta di Musica doppiata per due pianoforti di Fabio Nieder.
Nonostante l’indubbio impegno di questo tour de force contemporaneo e la diffidenza che tuttora serpeggia nei confronti della musica degli ultimi decenni, tutte le serate sono state seguite da un bel numero di appassionati, offrendo un bel colpo d’occhio sull’oratorio di San Filippo Neri anche per la presenza di molti giovani e giovanissimi, addirittura bambini e preadolescenti attenti ed educatissimi.
Anna Clementi e Nicholas Isherwood interpretano gli Indianerlieder (20 settembre) Foto Roberto Serra / Bologna Festival
Sonia Visentin, Dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo di Luigi Sammarchi (20 settembre) Foto Roberto Serra / Bologna Festival
Miriam Overlach e Marianne Smit, Freude per due arpe (21 settembre) Foto Roberto Serra / Bologna Festival
Alvise Vidolin, regia del suono concerti Stockhausen (18-23 settembre) Foto Stefano Santi / Bologna Festival
Michele Marelli corno di bassetto ( 22 settembre) Foto Stefano Santi / Bologna Festival