Wang e Nézet-Séguin: ed è subito festa
di Alberto Spano
La magia di Yuja Wang, a buon diritto nell'Olimpo pianistico attuale, e il carisma trascinante di Yannick Nézet-Séguin incantano e coinvolgono il pubblico del Bologna Festival.
BOLOGNA, 24 aprile 2018 – La pianista cinese Yuja Wang esordì a Bologna a vent'anni il 14 dicembre 2007 al Teatro Manzoni, nel cartellone della stagione sinfonica del Teatro Comunale, col Concerto n. 1 di Čajkovskij e l'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta mirabilmente da un allora settantunenne Charles Dutoit. Il ricordo è indelebile: si vide uscire sul palco del Manzoni questa sconosciuta pianista, piccola e minuta, vestita come una studentessa universitaria proveniente da via Zamboni. Cocente fu il contrasto fra l'aspetto quasi dimesso e la meraviglia dell'interpretazione. Erano anni che non si sentiva un suono così brillante e seducente dal pianoforte gran coda stanziale, anni che non si sentiva una versione più spumeggiante e musicale, rapinosa e profonda del grande concerto ciaikovskiano, forse addirittura dai tempi gloriosi di Lazar Berman. Non ci si capacitava dove poteva trovare le forze e la grinta e la potenza questa piccolissima pianista, dalle mani tentacolari e la tecnica trascendentale. L'elegante e cavalleresco Dutoit le preparò un sontuoso tappeto sonoro, con gli archi e i fiati del Comunale raramente così compatti e puliti. Il ricordo di quel concerto è ancora impresso nella pelle, col pubblico di solito annoiato della Sinfonica che non poteva quasi credere alle sue orecchie, e alla fine decretò un autentico trionfo, con molti bis, fra cui un'abbagliante Rapsodia Ungherese di Liszt.
Sono passati ben undici anni da quel clamoroso esordio sotto le Due Torri, Yuja Wang è tornata al Manzoni invitata da Claudio Abbado con l'Orchestra Mozart, ed è poi tornata in recital al Teatro Comunale per Musica Insieme il 6 dicembre 2010, in un concerto in cui il suono del vecchio Steinway del Bibiena sembrava come rigenerato. Il ricordo va ad una Sonata in do minore D 958 di Schubert da manuale e a una Danse Macabre di Saint-Saëns trascritta da Liszt e rivista da Horowitz da accapponare la pelle e non far rimpiangere l'originale (fu netta la sensazione di un suono quasi elettrico, irreale, sotto le incredibili dita della grande pianista).
Ritroviamo ora Yuja Wang alla sua quarta apparizione sotto le Due Torri, finalmente invitata dal Bologna Festival, in occasione della seconda tappa italiana della tournée della Filarmonica di Rotterdam diretta da Yannick Nézet-Séguin (ne è il direttore principale), sullo spartito il Quarto Concerto in sol minore di Sergej Rachmaninov. Al suo apparire in scena è subito festa per i suoi fan: Yuja è elegantissima, in abito lungo, seducente e sinuosa. Ma è subito festa per le orecchie di chi sa sentire: una lettura estremamente asciutta e rigorosa del Quarto Concerto, il meno appariscente e il più obliquo dei quattro, tanto caro ad Arturo Benedetti Michelangeli che nel marzo 1957 ne lasciò una tuttora insuperata incisione discografica con l'aurea bacchetta di Ettore Gracis sul podio della Philharmonia Orchestra di Londra. Una specie di monumento canoviano questa registrazione, che certamente ogni pianista considera di riferimento, quasi una sorta di Mecca. Yuja Wang dimostra di averla ascoltata e recepita, soprattutto nell'affrontare il cupo secondo movimento che, come in Michelangeli, attacca con una qualità di suono inesorabile, livido e quasi lugubre. Risolve con souplesse i mille trabocchetti del primo movimento, così moderno e così austero, e si lascia andare a un turbinio di giovanile brillantezza (come giusto) nel terzo tempo, con scoppi di sonorità qua e là, e prodigiosa precisione digitale ovunque, senza la men che minima sbavatura o nota presa male. Quasi un miracolo, se non fosse che la bacchetta di Nézet-Séguin non lascia molto respiro alla solista, in una visione generale di impellente tumultuosità del concerto, con non pochi momenti di sonorità sovrastanti il pianoforte.
Il miracolo Yuja Wang lo realizza compiutamente nei due fuori programma, col direttore seduto fra gli orchestrali ad ascoltarla in adorazione e simpatia: il Precipitato, ovvero il terzo movimento della Settima Sonata di Prokof'ev, in cui letteralmente Yuja piega il brutalismo percussivo autoriale in un gioco fantastico di pedale e ribattuti, con il tema ossessivo dei bassi sempre forte e in primo piano, quasi come un “pedale” di morte e distruzione (è la seconda “sonata di guerra”, cioè ispirata dalle notizie della seconda guerra mondiale). E poi nell'ultimo bis, la Romanza senza parole in fa diesis minore op. 67 n. 2 di Mendelssohn, momento apicale dell'intera serata, che da solo vale il biglietto. La trentunenne pianista cinese vi sfodera un fraseggio principesco, separando i piani sonori con inusitato virtuosismo timbrico e con l'esposizione del tema principale con la stessa cantabilità di un cantante in carne e ossa. Un momento magico. L'attributo in questo caso non è usato a vanvera o con tronfia piaggeria. Sono cinque minuti di assoluto incantamento sonoro, dal quale forse milleduecento basiti spettatori si separano a fatica, con scoppio d'applauso oceanico e liberatorio.
Grandi meraviglie sonore si ascoltano nella Sinfonia in fa minore Hob. I: 49 di Haydn in apertura di serata. Qui l'acclamato direttore canadese Yannick Nézet-Séguin, che dalla prossima stagione prenderà il posto di James Levine al Metropolitan di New York, dà un saggio delle sue doti direttoriali: estrema precisione, suono compatto, duttilità del fraseggio, capacità di estrarre colori a volte funerei da una partitura che sembra fatta apposta per le interpretazioni le più disparate. In questo caso dimostrando ad abundantiam che il bel sottotitolo “La Passione” allude certamente a quella di Cristo.
Le qualità di concentrazione, di slancio e di elasticità del quarantaduenne direttore canadese le si apprezzano ancor meglio nella brillante interpretazione della Quarta Sinfonia in fa minore di Čajkovskij che costituisce la seconda parte del concerto. Qui l'atletico direttore dà letteralmente sfoggio di profonda comprensione testuale e infonde una certa qual frenesia interna, come un accento sempre in avanti, una sua visione sintetica e passionale. Tempi serrati, tensione spasmodica e virtuosismo sono gli atout di Nézet-Séguin, sposati a un carisma magnetico ed espansivo, e a una naturale dote di simpatia e di calore umano. È un grande trascinatore, un incontenibile entusiasta della vita, che coinvolge strumentisti e pubblico nel gorgo della sua contagiosa musicalità. E possiede una tecnica direttoriale di prim'ordine, con gesto funzionale e preciso, ancorché non proprio elegante. Emendata qualche sonorità eccessiva (sia nel Rach4 che in Čajkovskij), la sua è una prova superlativa di interprete, certamente un predestinato. E una prova di grande perizia e compattezza della eccellente compagine olandese, la Rotterdam Philharmonic Orchestra, la seconda orchestra olandese dopo quella del Concertgebouw di Amsterdam.