Simboli polacchi
di Roberta Pedrotti
Per il ciclo dedicato alla "Triade polacca" Chopin, Szymanowski, Lutoslawski nella rassegna autunnale Il nuovo l'antico del Bologna Festival, una serata dedicata al repertori
BOLOGNA, 25 settembre 2014 - Torna l'autunno e torna, fra il manierismo e il barocco giustapposti alla nudità del XX secolo nell'Oratorio di S. Filippo Neri, la preziosa rassegna Il nuovo l'antico del BolognaFestival. Lo scorso anno l'asse portante era costituito dalla polarità Dmitri Šostakovič – Sofjia Gubajdulina, rivelando un rapporto che non può dirsi, banalmente, solo fra maestro e allieva, ma delinea il cammino complesso dell'arte sovietica ed ex sovietica come specchio del Secolo breve. Oggi i due poli sono sostituiti da una triade. Alla maniera degli antichi, che ricercavano trinità di campioni dei vari generi letterari, così tre nomi sintetizzano l'identità polacca, ben presente culturalmente (almeno come enclave profondamente cattolica stretta fra la Germania protestante e la Russia ortodossa prima, aconfessionale poi, oltre che come slavi occidentali distinti da tedeschi e slavi orientali) quanto tormentata politicamente. Tutti abbiamo impressi nella memoria gli eventi tragici della Seconda Guerra mondiale e quelli legati al tramonto del blocco sovietico, ma per delineare l'importanza e le traversie della nazione polacca nel XIX secolo basti pensare al valore simbolico della Marchesa Melibea nel Viaggio a Reims rossiniano (1824), che, dopo la pasionaria napoleonica Maria Walewska, si allinea in buon ordine alle celebrazioni della Restaurazione, trescando con la Spagna, affermando una personalità battagliera, colta e impetuosa, ma infine riunendosi alla Russia (il conte Libenskof), con la quale intrattiene una relazione tormentata e tuttavia salda.E, di fatto, ancora per decenni Varsavia dipenderà da Mosca e il sogno indipendentista della Walewska dovrà attendere e non troverà pace ancora per lunghissimi tempi.
Chopin a Parigi è il simbolo in carne e ossa della Polonia artistica e intellettuale, esule ma fortemente legata alle proprie radici. A lui seguono idealmente le generazioni di Karol Szymanowski e di Witold Lutoslawski. Il primo, nato nel 1882 e morto nel 1937, alla vigilia, dunque, dell'invasione tedesca, fu testimone del passaggio fra due secoli, del tramonto decadente del romanticismo, dei primi fremiti del Novecento; il secondo, fra il 1913 e il 1994, visse in prima persona, arruolato nell'esercito, l'aggressione nazista e patì poi, al pari di Šostakovič, la censura staliniana, attraversando nella piena maturità artistica la distensione e, infine, la dissoluzione del blocco sovietico. Non ci sono solo loro, naturalmente. Per esempio, val la pena di ricordare Stanislaw Moniuszko, padre dell'opera polacca, autore di un Paria (sullo stesso soggetto musicato anche da Donizetti) che nel 1868 sembra affratellato, ma con marcato sapore slavo, al clima della ventura Aida. Oppure Krysztoph Penderecki (1933), autore di Die Teufel von Loudun, o il suo allievo Krysztof Meyer, nato nel 1943 e pure presente, nel programma di questo concerto, al fianco della triade emblematica.
La serata si apre e si chiude con sonate in modo minore (rispettivamente re e sol) per violoncello e pianoforte, anche se la prima, di Szymanowski, fu concepita in origine per violino e trascritta poi in registro più grave da Kazimierz Wilkomirski. All'innalzarsi quasi tagliente della voce più acuta, il violoncello interloquisce con più calore, lasciando uno spazio dialettico più ampio al piano, senza per questo cedergli in importanza nell'architettura di un brano che, pur soppesato nei dettagli d'un'eleganza sofisticata e quasi dandy, non può non tradire il tormento profondo di uno dei più sensuali ed estetizzanti compositori del suo tempo. Poco avvezzo a lasciare gli ottantotto tasti, Chopin torna faticosamente, spinto dall'amico Franchomme, a una sonata per arco e piano a soli tre anni dalla morte. Si percepisce in maniera quasi fisica la ricerca spasmodica di una scrittura violoncellistica che non sacrifichi gli equilibri della partitura a favore dello strumento prediletto. La dialettica complessa delle due voci ha quasi del miracoloso per lo spiaccare delle rispettive personalità e, perfino, nello scambio di suggestioni e, si direbbe, aneliti romantici a una compenetrazione assoluta al di là di tradizioni e tecniche. Fra i due, la fulminante manciata di minuti delle Sacher Variations di Lutoslawski, composte per Rostropovic' e distillato della scienza compositiva cristallina di un compositore che seppe trattare il Novecento con classica misura e lucidità senza essere neoclassico. Al centro del programma, in conclusione della prima parte, anche Meyer e la sua Canzona op.56 per violoncello e pianoforte, commissionata da David Geringas e splendido squarcio di elaborazione melodica sospesa fra cantabilità latina e slava. Sul palco Luca Fiorentini impugna l'archetto e Jakub Tchorzewski siede alla tastiera. Levigato il suono, perfetto l'accordo nel fraseggio e nel timbro, chiara e appassionata la lettura, che sottolinea la continuità della scuola polacca, con la sua personalità in rapporto con una tradizione europea condivisa e in continua comunicazione ed evoluzione. E, infatti, dopo la chiusura con Chopin, cuore polacco e carriera francese, il bis è decisamente parigino: l'Allegro appassionato di Saint-Saëns. Varsavia e Parigi sono vicine, non per nulla nei programmi del ciclo polacco, accanto alla triade dei patroni, trovano spazi dialettici anche Ravel o Debussy.