La parola e la musica
di Luigi Raso
Ci troviamo a Napoli in compagnia del baritono bulgaro Vladimir Stoyanov, impegnato (dal 27 febbraio al 4 marzo) in una nuova produzione della Traviata, diretta da Daniel Oren, con la regia di Lorenzo Amato e con un cast che schiera Maria Mudryak come Violetta e Vincenzo Costanzo come Alfredo Germont.
All'indomani della prova generale andata in scena con gran successo di pubblico (leggi la recensione), incontriamo il Maestro Stoyanov in un gelido pomeriggio di fine febbraio; durante questa conversazione gli abbiamo posto alcune domande alle quali ha risposto con la cordialità, la signorilità e simpatia che gli sono proprie.
Maestro Stoyanov, potrebbe parlarci dei suoi studi musicali, della sua carriera e delle personalità, umane e artistiche, che l’hanno segnata maggiormente?
Ho iniziato a studiare in Bulgaria, presso la scuola musicale della mia città, Sofia, e successivamente mi sono iscritto al Conservatorio di Sofia. Ho terminato i miei studi accademici nel 1993/1994, poi ho conosciuto Nicola Ghiuselev, che ritengo il mio principale maestro, la mia figura di riferimento artistico. Con Ghiuselev ho iniziato il mio percorso artistico: per me è stato non solo un maestro di canto, ma anche di vita. Con lui ho iniziato a muovere i primi passi nella vita professionale e a cantare i ruoli più importanti.
Quando e dove è avvenuto il suo debutto?
Il debutto è avvenuto in Bulgaria nel 1994, in un teatro di provincia; cantai la parte del Marchese di Posa nel Don Carlo di Verdi. Ero molto giovane, stressato e molto inesperto… Ero alle prime armi. Ricordo comunque quel debutto con grande tenerezza e nostalgia. I primi passi sono sempre molto importanti. Successivamente, nel 1996, ho debuttato nel Teatro dell’Opera di Sofia. Considero il mio grande debutto quello al San Carlo di Napoli nel 1998, nel Macbeth, il mio debutto italiano.
In quali circostanze avvenne il debutto in Macbeth? Io ero presente a quel debutto e ricordo bene quella produzione.
Fu un debutto un po’ “strano”: ero stato scritturato come copertura per il ruolo di Macbeth (una produzione con la regia di Glauco Mari e la direzione d’orchestra di Gustav Kuhn). Durante la prima rappresentazione si ammalò il baritono titolare (Paolo Coni, n.d.r.) ed io lo sostituii; cantai nella seconda recita.
Per me fu un debutto del tutto fortuito, d’emergenza, ma rappresenta comunque il mio debutto italiano. Da allora sono legato molto a questo teatro.
Quali ruoli ha poi interpretato al San Carlo?
Il primo è stato, appunto Macbeth; dopo qualche anno ho cantato nel Gustavo III di Verdi, la prima versione di Un ballo in maschera. Fu un evento raro, un’operazione di filologia musicale, basata sulla ricostruzione della partitura da parte di Philip Gossett: nel Gustavo III ci sono arie e frammenti dell’opera completamente diversi rispetto al definitivo Ballo in maschera.
Successivamente sono tornato nel 2006 per interpretare Ezio nell’Attila (diretto da Nicola Luisotti, n.d.r.), per poi seguire nel 2007 con Falstaff (come Ford) diretto da Jeffrey Tate e con la regia di Arnaud Bernard: una edizione molto ben riuscita, con un grande cast (Ambrogio Maestri, Svetla Vassileva).
Dopo qualche anno sono ritornato qui per La traviata con la regia di Ferzan Ozpetek e ora sono ancora qui per una nuova produzione della stessa opera.
La traviata, nel percorso artistico di Stoyanov, è dunque molto presente. Come sente il personaggio il Giorgio Germont?
La traviata è un’opera famosa, molto conosciuta dal pubblico; sembra facile, ma è una opera da scoprire ogni volta che la si mette in scena. Va ripensata e riscoperta sempre: la semplicità della musica non equivale a semplicità nell’interpretazione. Il mio Germont è una persona che, in un primo tempo, appare negativa, molto severa; un conservatore, un uomo dalle vedute antiquate, poi, un po’ alla volta, si scopre un uomo molto sensibile e comprensivo della sofferenza umana di Violetta e di suo figlio.
Per me alla fine si rileva una persona positiva, molto più umana rispetto all’inizio: si rende conto della difficoltà nella quali versa Violetta, delle difficoltà emotive di suo figlio e della difficoltà a gestire questo amore impossibile.
Dal punto di vista vocale quale insidie nasconde la parte di Germont, in particolare la sua aria "Di Provenza"?
Interpretare quell’aria costituisce sempre una grande sfida per ogni baritono: la musica è semplice, la genialità di questa aria è proprio nella sua apparente semplicità. Occorre, però, far percepire la differenza tra la prima e la seconda parte dell’aria: la prima è una dichiarazione, la seconda è una preghiera, una confessione di un padre che soffre profondamente. Il nostro dovere è quello di toccare le corde sensibili del pubblico per raccontare una storia che è cupa, intima.
Germont si svela quale genitore profondamente sofferente; è un padre che non vuole perdere suo figlio. All’epoca doveva essere difficile accettare che il figlio si innamorasse di una donna come Violetta. Al giorno d’oggi questa storia, invece, può sembrare assurda.
Cosa deve avere per lei un baritono per poter essere etichettato come “verdiano” (per quel che possono valere queste classificazioni)? Quali sono state le parti di Verdi che più ha amato?
Il baritono verdiano è tale per l’accento: la parola si deve unire alla musica, per fondersi. L’accento drammatico non è il volume della voce, né la sua forza; quello verdiano, secondo me, proviene soprattutto dalla parola che si adatta alla musica, e dal fraseggio.
Questi “ingredienti” formano la sostanza dell’interprete verdiano.
Di Verdi ho amato e amo molto Rigoletto, che per me costituisce il massimo per il baritono verdiano. L’ho cantato a Parma, Firenze, Pechino, Sofia, con grandi direttore come Mehta, Renzetti, Palumbo, con grandi colleghi.
Quali sono i ruoli verdiani che affronterà e che vorrebbe affrontare?
Da qualche anno desidero molto cantare Simon Boccanegra. Ancora non ho avuto la possibilità, ma penso che presto arriverà il momento di Simone, un personaggio che mi attira molto, sia come psicologia sia per l’aspetto vocale.
Nel futuro dovrei debuttare nei Due Foscari, e poi mi piacerebbe fare Amonasro, che finora ho evitato.
Al di fuori del repertorio verdiano quali sono le parti che l’hanno interessata?
Mi incuriosisce Carlo Gérard nell’Andrea Chènier che farò questa estate, un nuovo debutto, a Lajatico (PI), al Teatro del Silenzio, con Andrea Bocelli. Sarà in forma di concerto. È una “incursione” nel verismo, ma sarà un verismo “moderato”!
C’è un interprete del passato che ammira particolarmente e che per lei costituisce un modello, un punto di riferimento artistico?
Il mio modello assoluto come baritono è sempre stato Piero Cappuccilli e non ho mai nascosto questa ammirazione: Cappuccilli è stato uno degli ultimi grandi baritoni della tradizione del canto lirico italiano. Non voglio imitarlo, ma penso che la mia vocalità sia simile alla sua, ammiro la sua tecnica vocale sempre impeccabile, il suo fraseggio, i fiati lunghissimi e lo stile vocale. Ovviamente mi piacciono altri baritoni italiani, a iniziare da Titta Ruffo, Ettore Bastianini, Giorgio Zancanaro Renato Bruson e Aldo Protti.
Questo è il mio personale Olimpo, ma il mio idolo è Piero Cappuccilli.
Qual è il suo rapporto con le regie liriche?
Io non divido la regie tra innovative/moderne e tradizionali: L’importante è che lo spettacolo abbia un senso logico compiuto; non sono affatto contrario alle regie moderne!
Le regie, tradizionali o innovative che siano, devono avere senso e gusto, ma, soprattutto, dovrebbero sostenere la musica, aiutare i cantanti, non creare ostacoli. Quando la regia è a servizio della musica noi artisti siamo contenti, perché il risultato finale è migliore; in caso contrario, la sostanza musicale rischia di perdersi con regie prive di senso. Penso che il compito del regista sia arricchire e abbellire quanto scritto dall’autore.
Lei ha lavorato con grandi maestri (alcuni li ha citati prima): quali sono i direttori che accordano maggiore attenzione al canto, che respirano con i cantanti?
Come avete potuto sentito ieri alla prova generale, mi trovo in piena sintonia con il Maestro Oren: è uno di quei direttori che capiscono e amano la voce umana. Sento che lui canta con me: questa è una sensazione molto bella, in questi casi posso dare il massimo, perché percepisco il sostegno del direttore.
Ieri [il 25 febbraio, ndr] mi ha sostenuto al 150%!! Direi che il 50 % del successo di ieri è da attribuire a Oren: ha creato cose bellissime in orchestra, dinamiche, colori, tempi...il risultato è stato estremamente positivo.
Com’è questa nuova Traviata al San Carlo?
Trovo che sia una produzione molto bella; ho lavorato molto bene con il regista (Lorenzo Amato, n.d.r.).
La scenografia è bellissima: Ezio Frigerio è garanzia di grande qualità, così come i costumi di Franca Squarciapino. Della direzione direzione musicale ho detto e il risultato finale dovrebbe essere molto elevato grazie a tutto il cast.
Sono molto contento di trovare un insieme di artisti di questo livello: in questi casi per noi diventa anche più facile interpretare e dare di più.
Lei è in carriera da vent'anni, quindi possiamo dire che ha raggiunto quella maturità artistica che le consente anche di dare consigli a giovani cantanti.
Qual è per lei la raccomandazione più importante per un giovane cantante?
Il mio consiglio è di non avere fretta, di avere pazienza. Il nostro è un lavoro che richiede molta pazienza: in due, tre o cinque anni non si ottiene nulla. Bisogna aspettare il momento giusto per ogni nuova parte e debutto; la scelta del repertorio è fondamentale: deve essere programmato con cura, perché gli sbagli si pagano sempre, e con gli interessi.
Io cito il mio maestro, Ghiuselev, quando mi ripeteva un consiglio che ho compreso adesso: “Vladimir, il nostro mestiere non si misura in altezza ma in lunghezza!”. Dopo venti anni di carriera, dico che aveva ragione.
Esistono ancora differenza tra i pubblici dei vari teatri, oppure la globalizzazione li ha omologati tutti? Nota maggior partecipazione di pubblico in un Paese piuttosto che in un altro?
I teatri sono sempre dei campi di battaglia! Ma meno male che ci sono ancora gli ultras della lirica coma a Parma, al San Carlo, alla Scala, La Fenice, Torino: la lirica è nata in Italia ed è giusto che il pubblico italiano sia molto esigente. Qui in Italia si avverte molta tensione prima di una nuova produzione; all’estero si percepisce minore tensione.
Ciò ha due aspetti. Il lato positivo è che le aspettative del pubblico incidono anche su noi cantanti alzando il livello artistico della prestazione; dall’altro lato, però, può generare ansia che non sempre aiuta.
All’estero ci sono tanti teatri di grande qualità, come a Madrid, Barcellona, a Londra, Vienna, New York, Zurigo, ma in Italia trovo le tifoserie ed è molto bello che ci siano ancora. Mi fa piacere che ultimamente gli spettacoli sempre più spesso registrino il sold out: mi sembra che la richiesta di lirica sia maggiore della proposta e ciò è positivo.
Quali saranno i suoi prossimi impegni?
Dopo questa Traviata sarò a Mosca, al Bolshoi, per Un ballo in maschera; successivamente Andrea Chènier a Lajatico. Ad ottobre canterò Ezio nell’Attila a Parma, ad ottobre 2018, in occasione del prossimo Festival Verdi. Il Regio di Parma è un teatro che amo molto.
Un’ultima domanda. Abbiamo iniziato questa conversazione parlando di quel lontano debutto al San Carlo: ci sono in programma impegni in futuro con questo Teatro?
Stiamo valutando qualcosa..ma ancora non posso dire nulla con certezza.
Grazie, maestro! E in bocca al lupo!