L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Leo Boccanegra

di Antonio G. Ruggeri

Festeggiatissimo Leo Nucci nei panni tormentati del corsaro divenuto Doge suo malgrado. Con lui si segnalano le ottime prove di Davinia Rodriguez e Fabio Sartori nei panni dei due amanti, il carisma e l'esperienza di Carlo Colombara quale Fiesco. Convincente la direzione di Francesco Ivan Ciampa, mentre desta perplessità la regia di Riccardo Canessa, che pare appagarsi della monumentalità storica della bella scenografia limitandosi a pose plastiche e tableaux vivants decisamente datati.

MODENA 21 marzo 2014 - Si può sostenere con certezza che la stagione lirica attuale del Teatro Comunale –Luciano Pavarotti- di Modena, nella sua ormai continua e proficua collaborazione con i teatri di tradizione emiliani e non, abbia prodotto spettacoli di ottima qualità, originali, eleganti e interessanti e anche Simon Boccanegra, penultimo titolo in cartellone, non fa eccezioni. Vera attrazione e punto di forza dello spettacolo, nonché motore che ha portato la serata a un successo incandescente, è stato Leo Nucci. Il baritono impersonifica l’ideale protagonista dell’opera così come lo avrebbe voluto Verdi, ovvero con notevoli capacità attoriali oltre che vocali, che gli permettono di sviluppare appieno i tormentati aspetti psicologici di questo difficile ruolo, caratterizzato tra l’altro anche dall’assenza di una vera e propria aria o pezzo di bravura che possa stupire il pubblico. Il compositore, infatti, fra Macbeth e Rigoletto, Jago e Falstaff, senza dimenticare Renato, Rodrigo, Ford e Foscari, sperimenta con Simone nuove forme che esaltino più che mai l’uso della "parola scenica". L’opera, che come noto nel 1857 alla Fenice non ebbe successo, dovette aspettare la revisione del 1881 per essere ben accolta, aprendo cosi quell'ultima radiosa stagione della vita di Verdi (proseguita con Otello e Falstaff) legata ad Arrigo Boito, al Teatro alla Scala e al baritono Victor Maurel, grande cantante attore, appunto, e interprete d’eccezione. Con l’aggiunta poi del quadro del Gran Consiglio, il personaggio si afferma non solo come padre anche come uomo di governo, assumendo una statura che precedentemente Miller, Rigoletto o Germont ancora non avevano conosciuto.

Molti sono corsi, dunque, a tributare ovazioni all’ultimo grande baritono della sua generazione (1941) rimasto ancora a calcare i palcoscenici ai nostri giorni, la cui esibizione non può essere valutata con il consueto metro di giudizio per stabilire l'entità dei cedimenti vocali (mascherati comunque con bravura e astuzia), o per addentrarsi in comparazioni storiche sull’interpretazione del Doge. Nucci con voce sostanzialmente ancora timbrata ed emissione morbida, mette nel suo canto una tale cura nella ricerca delle sfumature e degli accenti che, pur mancando di autentica autorevolezza e maestosità, creano un personaggio vissuto e sentito quasi come una seconda pelle e sbalzato a tutto tondo: tormentato, introspettivo, piagato negli affetti, patetico. Se perde quindi credibilità nella scena del Consiglio e nel finale del primo atto, con la maledizione rivolta a Paolo, risulta davvero umano nel malinconico rimpianto, nella commozione del padre, nel dolore represso eppure carico di angoscia. Una creazione potente!

Il resto del cast radunato attorno al suo blasonato prestigio è di tutto rispetto e indubbiamente di livello ed è stato l’elemento che ha permesso allo spettacolo quel salto di qualità verso qualcosa di più che una lussuosa routine. Amelia Grimaldi ossia Maria Boccanegra, la sola voce femminile di quest’opera dominata dai toni scuri, era il giovane e bellissimo soprano spagnolo Davinia Rodriguez, che pur affrontando il personaggio per la prima volta non delude le aspettative, segnalandosi così tra le migliori cantanti della scena lirica internazionale di oggi. La voce importante per timbro e colore è caratterizzata da buone capacità di proiezione e da una giusta tempra per risolvere credibilmente la vocalità verdiana. Grazie a una eccellente tecnica mantiene il suono sempre limpido, omogeneo e naturale, privilegiando in questo modo dolcezza e lirismo. Sontuosa nei cantabili (ben eseguita l’aria di entrata «Come in quest’ora bruna»), risolve con sicurezza e slancio un registro acuto corposo e di buon volume (lucente e ben sostenuto è infatti il Do del terzetto che conclude il terzo atto). L’interprete poi affianca a una espressività composta e sempre condotta ai valori musicali, un’intensa articolazione della parola che le consente di disegnare un personaggio forte e ben delineato in tutte le sue sfaccettature. Al suo fianco notevole rilievo al ruolo di Gabriele Adorno è dato da un magnifico Fabio Sartori pienamente a suo agio in una parte spesso considerata di scarsa importanza, ma difficile invece per tessitura, interpretazione e potenza drammatica. Voce dal volume ragguardevole, calda e luminosa nel colore, con acuti rilucenti e travolgenti propri dell’eroe verdiano, il tenore senza mai un cedimento in tutta l’opera regala - nonostante una resa scenica poco energica - grandi emozioni, grazie a un fraseggio incisivo, una variegata tavolozza espressiva e delle intenzioni interpretative molto buone. Fin dall’entrata (che cantata fuori scena ricorda quella di Manrico del Trovatore) sono rappresentati cosi benissimo l’impulsività e l’impeto giovanile, lo spirito ribelle, il fremito bruciante della gelosia e la passionalità dell’innamorato. Nella insolita aria bipartita del secondo atto in cui medita di uccidere Simone esegue brillantemente i difficili passaggi di furore di “O inferno!... Sento avvampar nell’anima” e quando questi poi si stemperano nel largo “Cielo pietoso, rendila” il cantabile è morbido ed emozionante. A lui dopo questa esecuzione l‘ovazione più sentita e prolungata della serata. Carlo Colombara mette al servizio del ruolo di Jacopo Fiesco una voce di qualità che, se pur non più freschissima, ha ancora il colore scuro e autorevole specifico del basso verdiano. A momenti di affaticamento vocale in cui il timbro troppo gutturale si perdeva e il volume in difetto di potenza era sensibilmente inferiore a quello dei colleghi se ne alternavano altri bellissimi di suono timbrato, pieno, corposo e nobile. La tecnica di emissione, che gli permette di porgere le frasi con classe e temperamento, la capillare attenzione al fraseggio e la forte presenza scenica sono invece ancora quelle proprie dei grandi artisti: riesce a delineare pertanto un personaggio risoluto, ma non malvagio, anzi calmo e riflessivo, cupo e addolorato. Risolve l'impegnativa “Il lacerato spirito” con accenti solenni e colori morbidi, mentre nel duetto del primo atto in cui affida Amelia a Gabriele preferisce più declamare che tornire la frase. Si abbandona infine a un enorme sconforto nell’ultimo confronto con il doge non più nemico e a cui troppo tardi può concedere il suo perdono. Alexey Bogdanchikow, dalla vocalità sostanzialmente corretta e omogenea ma troppo leggera e modesta, è stato solo decoroso nel difficile e importante ruolo di Paolo: la psicopatia di questo truce personaggio, il più ambiguo dell’opera, sostenitore e assassino del Doge, costretto a rivolgere a se stesso l'atroce maledizione pronunciata da Simone, non ha trovato la giusta incisività e statura tragica, né è stata valorizzata la natura subdola del breve ma significativo monologo “Me stesso ho maledetto!” in apertura del secondo atto, risolto solo con eccessi melodrammatici della gestualità. Valida invece la prova di Simon Lim, Pietro dotato di un gradevole timbro di basso, come anche quella di Ernesto Petti, che ha dato il giusto rilievo al capitano dei balestrieri; corretta l'ancella di Federica Vitali. Dirige l'Orchestra Regionale dell'Emilia Romagna il giovane Francesco Ivan Ciampa con gesti ampi, facili e chiari. Se pur non privo di sbavature, conferisce all’opera grande compattezza e coerenza stilistica, legando con un unico filo conduttore le atmosfere suggerite dalla sapiente orchestrazione verdiana: dalla tinta tetra e funerea che avvolge il prologo al risveglio della natura nel giardino dei Grimaldi, alla suggestiva visualizzazione sonora della “marina brezza” con il clima rarefatto delle sue albe e dei suoi tramonti, alle vampate d’angoscia e di gelosia di Gabriele Adorno. Evidenzia molto bene le dinamiche, le sfumature e i particolari della preziosa orchestrazione, con una buona scelta di tempi e perseguendo sempre un corretto equilibrio tra organico strumentale, voci soliste e coro (qui appena sufficiente quello del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati).

Unico punto debole della serata è stato lo spettacolo realizzato con classica monumentalità il più tradizionalmente possibile, ma non privo di suggestioni per gli amanti del genere. In un periodo caratterizzato da un’accesa controversia sul senso e sui contenuti del “teatro di regia” nel melodramma, questa proposta sembra un atto temerario con la quale ci si vuole riappropriare della possibilità di fare teatro rispettando i tempi e i modi dell’azione. L’impianto scenico sobrio ed essenziale ideato da Alfredo Troisi propone un’allusione alla Genova del XIV secolo attraverso l’utilizzo di poche pareti a strati bianchi e neri che richiamavano l’architettura ligure in marmo e ardesia e che si prestavano a fungere sia da interno che da esterno. Si voleva dare cosi l’immagine di un doge quasi prigioniero delle sue stesse mura nel palazzo dogale dove si intravedeva solo sullo sfondo proiettato un orizzonte marino tinto di varie tonalità dell’azzurro. L’uso limitato delle luci però, i costumi poco significativi e non sempre adatti alla figura dei cantanti, la regia di Riccardo Canessa funzionale, ma senza grandi idee e tesa solo a creare pose plastiche o grandi tableaux d’antan con masse statiche, alla lunga annoiano e l'impressione complessiva non è sicuramente delle migliori. Alla fine ovazioni interminabili e grandi approvazioni per tutti da parte di un pubblico entusiasta.


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