Caro elisir
di Stefano Ceccarelli
Va in scena, al Teatro dell’Opera di Roma, la consueta opera donizettiana di stagione: quest’anno, di nuovo, la produzione del 2011 de L’elisir d’amore, che riprende (è un vero peccato!) la regia di Cappuccio, ma cambia – quasi del tutto – cast e direttore. Per fortuna, Renzetti non ci fa certo rimpiangere Bruno Campanella. Anzi, molte delle soluzioni squisitamente musicali di Renzetti, e un cast vocale che ha le sue punte di diamante in Poli e la Feola, ci fanno (almeno) godere l’opera nella sua dimensione musicale.
ROMA, 13 maggio 2014 – Il Teatro dell’Opera di Roma, tradizionalmente, propone sempre, ogni stagione, un titolo del maestro bergamasco Gaetano Donizetti: da anni a questa parte si tratta di titoli, assai celebri, del repertorio comico, L’elisir appunto e Don Pasquale. La produzione cui abbiamo assistito (8−14 maggio) è una ripresa di quella della stagione 2011-12. Donato Renzetti – che prende la bacchetta al posto di Bruno Campanella, che aveva diretto le ultime due opere buffe donizettiane in scena all’Opera – il pubblico romano ha potuto già, recentemente, vederlo in una ripresa dell’Attila di Muti-Pizzi alle Terme di Caracalla (2012); Ruggero Cappuccio, invece, lo si vede abbastanza spesso all’Opera: tra le ultime cose, ha appunto curato la regia sia de L’elisir, sia del Don Pasquale. Donato Renzetti sceglie un piglio energico, una conduzione di polso, fin dall’attacco dell’ouverture. La sua idea appare immantinente chiara: una direzione spigliata, una resa sonora asciutta, che non lesina, però, sull’evidenziare le polle sorgive di fantasia rossiniana che sono sparse qua e là nella partitura (anzi, si potrebbe dire che la chiave di lettura rossiniana è più ponderante di quella che potremmo, tradizionalmente, considerare donizettiana). E ci riesce, anche, quasi sempre bene: quest’interpretazione de L’elisir non passerà, forse, alla storia per il geniale cesello di ogni nota, ma colpisce per la genuina anima con cui la si è affrontata. Il lavoro paga bene: anche l’orchestra si fa apprezzare nell’accompagnamento – talvolta, voluminosamente, anche troppo; ma non sono riuscito a capire se quella di coprire talvolta le voci fosse una scelta ponderata da parte di Renzetti, magari volendo risaltare il sinfonismo, squisito, di più pagine de L’elisir, o dovuta a qualche calo di voce degli interpreti.
Il cast è, in generale, convincente. Sopra tutti, Antonio Poli, un Nemorino che al naturale physique du rôle unisce una prodigiosa tecnica vocale: una voce dal timbro latticino, un fraseggio sempre elegante, una pronuncia curatissima, sorreggono un campionario di preziosità vocali rare al giorno d’oggi. Legati, messe di voce, acuti mai ingolati, appoggi lievi, filati e canto sul fiato. Il tutto emerge fin dalla sua cavatina, «Quanto è bella, quanto è cara», dove ancora deve scaldare al meglio la voce, e si palesa pienamente nel dolcissimo duetto con Adina («Chiedi all’aura lusinghiera») e nel rossiniano duetto con Dulcamara («Voglio dire… lo stupendo»). Ma il meglio di sé lo dà nelle parti cui la verve comica deve congiungersi al tono larmoyant, disseminato qua e là dal compositore: con quale ingenua malinconia porge la melodia dell’arioso «Adina credimi, te ne scongiuro…», che dà avvio al largo del finale I, e quella nel duetto con Belcore «Ah! Chi un giorno ottiene Adina / fin la vita può lasciar»! Ma, soprattutto, la celeberrima romanza «Una furtiva lagrima», dove si libra sulla melodia: con quale dolcezza porta la messa di voce sul fa acuto e, nella ripresa, dopo la cadenza e un delizioso filato, termina sul si bemolle. Il pubblico è in deliquio e reclama il bis: Renzetti, dopo aver ammonito sulla bellezza di molte parti dell’intera partitura, lo concede. Rosa Feola è una deliziosa Adina; già presente nel secondo cast del 2011, questa volta è la prima donna. Dotata di una voce vibrante e metallica, ha un ottimo controllo delle variazioni e sa dosarsi stilisticamente bene: spesso è carente di potenza, ma vi supplisce con una genuina musicalità. Nei panni di Adina, inoltre, può vantare anche l’allure del ruolo. Parte benissimo nella sua cavatina, «Della crudele Isotta», si fa sempre valere nei duetti, mostrando un accento fra il lirico e il civettuolo: stupisce, veramente, nella sua aria «Prendi; per me sei libero», dove sfodera una rara grazia e un energico accento nella cabaletta, irta di fioriture ‘alla Rossini’.
Belcore è Alessandro Luongo, oramai stabile nel maggior teatro romano per quanto concerne ruoli baritonali buffi: il timbro è, tutto sommato, bello, ancorché granuloso, e possiede una linea di canto decorosa, ma poca potenza. Forse gli manca un po’ dell’argentina freschezza richiesta a un ruolo come Belcore; certo però non manca di spavalderia. In generale è meglio negli ensemble che nella sua aria, un vero coup de théâtre (quanto Donizetti guardò al modello – guarda un po’…rossiniano! – della Cenerentola, all’aria di Dandini «Come un ape nei giorni d’aprile»), «Come Paride vezzoso», dove riesce in buone variazioni nella cabaletta che sfocia in ensemble; particolarmente convincente nell’insidioso sillabato che sorregge ritmicamente la prima sezione del duetto con Nemorino. Dulcamara viene cantato dal romeno Adrian Sampetrean: un timbro gradevole, da autentico basso buffo, squillante e non molto brunito, unito a un fraseggio frizzante e all’emissione stupenda di alcuni suoni. Nella sua aria-monstrum, lo scioglilingua par excellence, «Udite, udite, o rustici», regge bene le insidie del fraseggio, non scendendo in molte volgarità, che storpiano la naturale pronuncia italiana (molto comuni, per esempio, in area nordica), togliendo verve a un testo che l’ha di suo, alla sola lettura. Apprezzabile nei duetti e nel finale; molto carina l’idea di cantare la barcarola veneziana di Nina e del senator Tredenti con la s moscia: in effetti, il senatore ha solo tre denti! La Giannetta di Damiana Mizzi è graziosa e irresistibilmente pettegola. Il coro, preparato da Roberto Gabbiani (assai ridotto rispetto al solito: sarà forse per la tournée giapponese?), non risalta molto: peccato, perché, ad esempio, il coro d’apertura, «Bel conforto al mietitore», è una perla assoluta dell’invenzione donizettiana, soprattutto nelle frasi «Ma d’amor la vampa ardente / ombra o rio non può temprar», che s’illuminano di una melodia del sapore di pace arcadica.
La regia di Ruggero Cappuccio – a essere schietti − non mi convinse allora e non mi ha fatto cambiare idea, rivedendola. I cantanti cercano di fare il loro meglio per stare dietro a alcune scelte che, francamente, sfiorano il ridicolo: passettini da ubriachi d’osteria devono sempre sottolineare ogni texture ritmica e coreutica della partitura, svilendone il contenuto autenticamente frizzante. Pure l’idea degli acrobati e saltimbanchi (tutti bravissimi, peraltro), a lungo andare stanca: fanno prodezze di ogni genere (capriole, verticali, trampoli ecc.), ma in fin dei conti mal celano la vacuità di un’idea registica che si basa soprattutto sulla negazione della patina bucolica della trama, per trasformala in una sorta di atemporale tana del Bianconiglio perennemente in preda al caos, schizofrenicamente in movimento. Dicevo, a lungo andare stanca, e non poco. Ma le follie registiche sarebbero troppe a elencarsi: Adina che, dopo aver letto a alta voce qualcosa che stanno leggendo tutti (contadini analfabeti!) con una bislacca lampada, strappa le pagine del suo libro; la boccetta dell’elisir attaccata mediante cordicella all’astronave di Dulcamara, che crea più problemi di spostamento che altro; e si potrebbe continuare… Ma, anche in una regia pessima, qualche fiore d’intuizione si può trovare: la scena in cui Giannetta informa le amiche del coro della nuova eredità di Nemorino è spassosa (tutte si specchiano, vanesie, e ballano un piccolo can-can); o il colpo di teatro dell’arrivo di Dulcamara in un'astronave triangolare, da dove esce accovacciato fingendo di essere un nano – per cantare da questa posizione si dev’essere bravi… ma qui, in generale, si sente la mancanza di Alex Esposito, che rese questa scena indimenticabile nella produzione del 2011. Le scene (Nicola Rubertelli) sono come la regia: altalenanti e, a lungo, monotone. Il primo tableau è il migliore: casupole in lontananza, una scena inondata di bianco, un’apertura verticale al centro dal cromatismo cangiante (lilla o viola) dove si proietta il sole. L’uso di calare pannelli colorati (nel duetto Adina-Nemorino del I atto) o di calare una tenda di velatino nero per indicare il calar della notte (?), non sollecita né smuove l’immaginazione. Il secondo tableau ha, persino, qualche nota trash, come i galli e le nuvole appese in aria e circondati di lampadine, a mo’ di insegna. I costumi (Carlo Poggioli), i cui colori si stagliano sul neutro del bianco, hanno qualche interesse, come l’uso di tovaglie di plastica con motivi fioriti per le donne; quelli maschili sono più ordinari e le uniche note di colore risultano Belcore in divisa rossa e Dulcamara abbigliato eccentricamente. Di questa prodizione, dunque, ciò che rimane impresso è l’aspetto musicale, più che quello ottico. In questo senso, fortunatamente, la musica di Donizetti è talmente tripudiante di ricchezza immaginifica da renderla autonomamente in grado di stimolare la fantasia dell’ascoltatore: infatti, «what we treasure about Donizetti’s L’elisir d’amore is the extraordinary way in which the opera fuses together the comedy inherent in this “Tristan and Isolde” tale transported to a country village, with its standard buffo types, and a depth of feeling, a sentimentality, captured through elegiac melody and offering ample opportunities for the most insinuating “bel canto” style» (Philip Gossett, A composer blessed by extraordinary facility in composition, dal programma di sala).