La seconda opportunità
di Luis Gutiérrez
Il regista Mario Espinosa torna a curare un allestimento al Palacio de Bellas Artes, ma ancora una volta è un disastro. Nel cast vocale, se Ramon Vargas delude al suo esordio come Manrico, George Petean è un Conte di Luna superlativo.
CITTA' del MESSICO, 3 luglio 2014 - Il trovatore è un'opera che mi sconcerta, poiché la considero un passo indietro nel cammino del melodramma verdiano. Dopo il terzetto dell'ultimo atto di Rigoletto, in cui il compositore fece sì che la natura stessa cantasse come elemento fondamentale del dramma muiscale, Verdi torna a comporre un'opera secondo i moduli tipici del belcanto. Per esempio, l'introduzione si apre con un primo tempo caratterizzato dallo stile declamatorio di Ferrando e del coro, unito all'impeto crescente dell'orchestra che prepara il cantabile dell'aria di Leonora, il cui tempo di mezzo è un rapido scambio di battute con Ines, culminante in una fiorita e brillante cabaletta. Il modello si ripete nel corso di tutta l'opera. Ammiro comunque il tempo di mezzo più bello e spettacolare della storia del melodramma romantico, il celebre "MIserere" nell'aria di Leonora della quarta parte.
Quest'opera può definirsi, parafrasando Julian Budden, come “la drammaturgia musicale del momento espanso”. Due chiari esempi che giustificano tale appellativo si succedono nella seconda parte, in cui l'aria del Conte di Luna si congela nel suo tempo di mezzo quando il coro e Ferrando ripetono a sazietà quei versi profondi che recitano “Ardir! Andiam, celiamoci, Fra l’ombre, nel mister! Ardir! Andiam… silenzio! Si compia il suo voler!”, e nella frase che Leonora pronuncia più di dieci volte nel finale della medesima parte: “Sei tu dal ciel disceso, O in ciel son io con te?”. E con questo chiudo le mie personali riflessioni su quest'opera che per me costituisce un passo indietro nello sviluppo verdiano, benché riconosca la grande bellezza e drammaticità di moltissime pagine, che la rendono uno dei titoli favoriti di molti appassionati.
Verdi pensó inizialmente a La zingara come titolo per la sua opera e fece del tema del rogo/fuoco la sua tinta peculiare. Anche cambiando titolo, non mutò questa tinta. Il fuoco fisico appare nel lavoro dei fabbri, si sente nel racconto di Azucena che getta il figlio fra le fiamme, così come quando Manrico interrompe le sue nozze perché informato che colei che crede sua madre sta per essere arsa viva e - cantando la pagina che i più tradizionalisti aspettano fin dall'inizio per giudicare il tenore - a sua volta menziona “quella pira”, infine nell'ultima scena, in cui la vecchia gitana esprime tutto il suo terrore per “il rogo”. Naturalmente le passioni stesse esacerbate dal quartetto protagonista non sono altro che il fuoco dell'istinto prima che la scintilla dell'intelligenza accendesse nell'essere umano la ragione.
Il regista (Mario Espinosa) e il suo staff “creativo” hanno deciso di ignorare un dato tanto ovvio, "creando" un altro concetto che, parole dello stesso Espinosa, recita: “Il nostro Trovatore si colloca nel futuro, dopo che il mondo come noi lo conosciamo si è estinto, quando i sopravvissuti hanno ricreato la società con i medesimi difetti e le medesime virtù. Siamo in uno scenario post apocalittico (sic), in una specie di seconda volta dell'umanità, sotto l'impero della nota e inesorabile legge del sangue” (sic, sic, e ancora sic) e via con altre barbarie nel tentativo di spiegare l'allestimento. Il fatto è che quando i sopravvissuti hanno ricostruito la civiltà, hanno dimenticato di reinventare il fuoco - ebbene: nemmeno un cerino si è acceso nel corso di tutta l'opera. Concludo che il fuoco che rappresenta l'intelligenza umana e la civiltà sia totalmente sfuggito al regista e al suo staff "creativo”. Non comprendo perché Azucena manifesti un terrore tanto feroce all'idea di qualcosa che non esiste, mentre non ha il minimo timore di un boia che maneggia minaccioso una scure per almeno dieci minuti.
I costumi dei personaggi principali sembrano richiamare il XIX secolo, ma sono assai comuni nella foggia; quello di Leonora sembra un plagio dai vecchi film di Maria Victoria [attrice messicana nata nel 1933, ndr], mentre le uniformi dei coristi sono più futuribili e ricordano gli abitanti del sottosuolo nella saga del Pianeta delle scimmie, o addirittura una parodia involontaria degli spermatozoi della celebre pellicola di Woody Allen – con la differenza che in questo caso tutti gli spermatozoi vestono di nero.
Come è costume di molti registi, Espinosa necessita divertire il pubblico – essendo assai probabile che questo aborra la sua impostazione - con numerosi combattimenti medievali e apparizioni continue di teppisti e prostitute, coronati con la presenza di alcune mummie che sembrano salsicce, con quattro nastri rossi a guisa di sangue, senza che però nulla significhino e a nulla servano, componendo quadri plastici “di-vi-ni” e inutili.
La scenografia consiste in due piattaforme fisse per la durata di tutta l'opera, più un ponte - avrà un qualche risultato arcano? - tra queste, dove si collocano Azucena e Manrico durante l'aria della gitana e la narrazione delle sue disgrazie, tende militari, che suppongo rappresentino gli eserciti in lotta, che appaiono e scompaiono a discrezione del regista e un albero metallico della scultrice Ana Luz González, accreditata con i numerosi figuranti e altri collaboratori nel programma di sala. Le luci sono un po' migliorate rispetto alle recite del 2013. Devo dire che questa messa in scena mi fa pensare di essere realmente imbecille, io come coloro i quali pagano per vedere qualcosa che o non comprendono o è una sciocchezza, mentre regista e collaboratori vengono retribuiti per sprecare le limitatissime risorse finanziarie della Ópera de Bellas Artes.
La resa musicale, per fortuna, non era al libello dell'allestimento, per quanto non fosse di quelle che si stampano indelebilmente nella memoria. In effetti ai nostri giorni è difficile riunire un cast che renda in maniera brillante, o almeno sufficiente, le esigenze vocali imposte da Verdi ai cantanti. Personalmente mi aspettavo di più da Ramón Vargas. Non mi pare che abbia cantato il Do acuto - piuttosto un Si bemolle - che i tradizionalisti attendono, ma che io non considero così importante - è noto che Franco Bonisolli definì Plácido Domingo Pla Mingo per questa ragione –, ma la mia modesta opinione è che, pur essendo Vargas un cantante di altissimo livello, Manrico non faccia per lui. Non per la mancanza del Do, ma perché la sua voce è di tenore lirico e non di lirico spinto, e potrà dirsi tale solo letteralmente "spingendo" se continua a cantare parti simili.
Il soprano che l'anno scorso si chiamava Joanna Paris, è tornata come Joanna Parisi, ma questo cambio non le ha portato vantaggi, per lo meno come Leonora. La sua prima aria è minata da parecchi trilli, anche otto successivi, due volte in sole due battute e io non ne ho inteso nessuno, così come le molte appoggiature scritte da Verdi, semplicemente ignorate. Quel che non comprendo è perché non abbia omesso la cabaletta “Tu vedrai che amore… “, dato che non sarebbe stata la prima volta. La sua resa attoriale è stata terribilmente povera, sorridendo in ogni momento; per molto meno, Sylvia McNair è scomparsa dalle scene liriche, e mi chiedo cosa abbiano fatto il regista e i suoi assistenti durante le prove.
La moldava Elena Cassian ha voce di bel timbro ma estensione assai limitata negli acuti. Ciò nonostante, non ha demeritato.
Ciò che valeva la serata, il prezzo del biglietto e il tempo speso, è stata l'interpretazione del rumeno George Petean come Conte di Luna. Splendente nel terzetto del primo atto e in “Il balen del suo sorriso” è stato fenomenale in “Per me, ora fatale”. Un cambio importante e molto positivo rispetto al cast dello scorso anno. Ci auguriamo un ritorno del maestro Petean, e sempre di cantanti di questo calibro, nei cartelloni delle Bellas Artes.
Rubén Amoretti ha ripetuto il suo Ferrando credibile e ben cantato; i ruoli secondari sono stati resi appropriatamente da Gilberto Amaro, Roberto Aznar e Alejandro Coreño. Si è distinta come Inés, María Fernanda Castillo, allieva dell'Estudio de Ópera de Bellas Artes. Se questo è il livello degli studenti il progetto funziona decisamente bene.
Altro cambio importante rispetto alle recite del 2013, è avvenuto in buca, dove in questo caso Enrique Patrón de Rueda ha imposto tempi che rispettassero la partitura evitando di travolgere i cantanti.
Termino dicendo che assolvo totalmente musicisti e cantanti, poiché è un'impresa davvero erculea tentare di creare una buona interpretazione del Trovatore se il regista e i suoi seguaci eliminano il fuoco nella scena, nelle menti e nei cuori degli artisti. Non per nulla Juan Pons disse che il Simon Boccanegra che Espinosa allestì nel 1997 è stata la peggiore produzione operistica a cui abbia preso parte. E non lo riferisco per sentito dire.
Alla sua seconda opportunità il "regista" ha compiuto un nuovo disastro. Che peccato per l'opera in Messico (un'altra volta)!