L'utopia di Reims
di Roberta Pedrotti
Dopo le traversie di tre prime dai tratti interlocutori, il tradizionale Viaggio a Reims dell'Accademia Rossiniana (che ha ormai attraversato tre lustri di ROF) ci ricorda qual era in origine il rapporto fra spettacoli di punta e la gavetta dei giovani, confine oggi sfumato, ma che proprio le prove promettenti di alcuni elementi (con due perle fra le voci gravi) impongono di ricordare, così come il coinvolgimento dei più piccoli nell'interazione con i laboratori per bambini del Viaggetto a Reims.
PESARO, 13 agosto 2014 - Curioso paradosso assistere alla quarta prima del Rof, quella del Festival Giovane (e quindi, si suppone, meno ricco di mezzi, più agile e di minori ambizioni fuor che offrire un'opportunità a talenti emergenti), dopo le tre prime “maggiori”, nelle quali ci si aspetterebbe di trovar realizzato ai massimi livelli il fiore del teatro musicale rossiniano, con proposte anche audaci ma stimolanti. Invece abbiamo esordito con un colossale e doloroso buco nell'acqua [leggi la recensione di Armida], seguito da due esecuzioni in forma semiscenica, una in cui la scenografia ha proliferato spontaneamente sostituendo la regia, l'altra in cui un regista ha almeno imposto una cifra unitaria complessiva [leggi la recensione del Barbiere di Siviglia e Aureliano in Palmira]. Troppo pochi, in proporzione, gli interpreti all'altezza della situazione.
Sottraendo, sottraendo, alla fine il caro vecchio Viaggio a Reims a costo zero (o quasi) inventato da Emilio Sagi per gli allievi dell'Accademia Rossiniana fa la figura della messa in scena di punta. Gettando allo sbaraglio in cimenti troppo onerosi o troppo precoci giovani che difficilmente potranno far più che disimpegnarsi con correttezza e buona volontà risulta un po' confuso il confine fra il trampolino di lancio e il traguardo, fra il perfezionamento e la carriera. C'è molto su cui discutere e riflettere, ma, trattando ora nello specifico di questa quarta prima, è bene tener sempre presente che si tratta di una parata di giovani voci alle prese anche con una prova scenica che suggerisce solo in parte il futuro di un artista: c'è chi s'imporrà subito, chi svanirà, chi brucerà come una falena di fronte alla lampada del rapido successo, chi emergerà inaspettatamente sulla distanza, perché più ancora della voce, per questo mestiere, conta un organo collocato una spanna circa sopra le corde vocali, dietro alla maschera. Quest'organo è, però, tanto sofisticato e complesso che tre ore di spettacolo son decisamente poche per ricavare qualcosa più di un'impressione. Scattiamo invece un'istantanea della situazione, riflettiamo su di essa, esaminiamo i dati, elaboriamo consigli, formuliamo ipotesi e pronostici per il futuro.
Anche quest'anno abbiamo ascoltato voci che ci hanno destato speranze, altre che hanno suscitato dubbi, altre ancora sulle quali il giudizio per ora si sospende, ma sappiamo che la partita comincia per tutti a giocarsi ora, nelle scelte che si compiranno da questo momento.
Frattanto la recita comincia con qualche perplessità: Shahar Lavì ha voce graziosa, ma di soprano, mentre Maddalena è un mezzo e le impone qualche difficoltà; Claudio Levantino è un Don Prudenzio piuttosto ingolato. L'ingresso di Madama Cortese, poi, è il più problematico, perché Giulia De Blasis evidenzia subito una respirazione troppo alta, difetto che inevitabilmente peggiora nel corso nella recita pregiudicando appoggio, proiezione, legato e timbro, con la forza della giovane età a sostenere solo gli acuti sfogati. Se si tratti, come è possibile, di un inconveniente dettato dalla tensione del debutto o da una cattiva forma fisica, o se invece sia un problema tecnico radicato è difficile dirlo dopo questo solo ascolto, ma certo l'artista dovrà riflettere e porre rimedio consolidando la gestione del fiato in ogni evenienza. [pochi giorni dopo Giulia De Blasis è stata effettivamente sostituita per indisposizione nella conferenza concerto su Giovan Battista Velluti ndr.]
La recita migliora con la Folleville di Isabel Rodriguez Garcia, che non si presenta come macchinetta da acuti ma affronta la sua grande aria con piglio più lirico, denotando un'organizzazione vocale già piuttosto salda. Ben figura nel complesso anche la Corinna di Hasmik Torosyan, caratterizzata da un certo vibrato, ma anche da una grande eleganza nel cantabile: la piccola amnesia nel duetto con Belfiore (forse un'incomprensione con il podio) è un veniale incidente che si registra per cronaca ma non inficia la sua prova, mentre le si consiglia di curare maggiormente la gestualità, giacché il suo mulinare in alternanza le braccia durante l'Improvviso conferisce un'aria d'incertezza che potrebbe, invece, essere agevolmente corretta in una postura più disinvolta e incisiva.
Meno interesssante la Melibea di Aya Wazikono: questo dev'esser stato un anno gramo per i mezzosoprani, sia perché, come dicevamo, non se ne è trovato uno per Maddalena, sia perché la giovane giapponese, pur corretta, non sembra perfettamente a fuoco in questo registro, specie nei passi più gravi, lasciando il personaggio sostanzialmente in ombra. Con lei si è frattanto affacciato sulla scena il baritono ventiseienne Iurii Samoilov, che presta a Don Alvaro una teatralità spassosa, con il suo fare da sciupafemmine da balera di pessimo gusto (colossale ciuffo biondo e camicia aperta per la festa finale), e una vocalità interessante ma ancora in divenire. Il suo rivale conte Libenskof è il tenore Anton Rositskiy, forte di un registro acuto di mirabile facilità, che gli permette perfino d'interpolare senza sforzo un Fa sovracuto: la voce s'intuisce di buono spessore potenziale e con l'esperienza e l'intelligenza potrebbe arrotondarsi ammorbidendo e variegando il cantabile con ottime prospettive. Anche l'altro tenore, Matteo Macchioni, si fa apprezzare: la voce è gradevole, non privilegiata ma duttile ed emessa con garbo, ancora a tratti acerba, ma compensata da una disinvoltura attoriale che questo allestimento permette sempre agli interpreti del cavalier Belfiore in grado di sfruttare la situazione di raccogliere un meritato successo personale. Il barone di Trombonok era invece Anton Markov, classico buffo baritonale chiaro, simpaticamente distinto nella sua personale caratterizzazione.
Le due perle più interessanti vengono, però, dalle due voci gravi principali, Don Profondo e Lord Sidney. Il primo è appannaggio del cinese Yupeng Wang, di cui colpisce un'intelligenza che ci auguriamo foriera di lusinghieri traguardi: la voce, quando si libera, è veramente di bella qualità, che solo una pronuncia attenta ma ancora né fluidissima né impeccabile tende a offuscare, ma proprio il comprensibile gap linguistico rende ancor più notevole la resa delle “Medaglie incomparabili”, in cui, non potendo giocare come un europeo con le inflessioni del Vecchio Continente, riesce comunque ad azzeccare caratterizzazioni precise e puntuali.Wang ha compreso quello che è oggi il suo limite e ha costruito la sua interpretazione cercando altre strade, senza imitare nessuno: un ottimo inizio.
All'aristocratico inglese, invece, presta canto e corpo il croato Marko Mimica, dal timbro di bellezza più unica che rara, dall'emissione esatta e composta. Davvero un potenziale fuoriclasse che potrebbe realizzare molti sogni in chiave di Fa: deve solo fare attenzione a qualche suono lievemente calante intorno al passaggio e, soprattutto, quando vi affronta passi di coloratura, che non sembra essere ora il suo asso nella manica. Se vorrà approfondire questo repertorio (che Assur e che Maometto magnifico sarebbe!) l'agilità sarà certamente da rifinire, ma uno sbocco naturale e grato potrà essere indubbiamente nel grande repertorio cantabile di Donizetti, Bellini e Verdi.
Gli altri sono Christian Collia (Luigino), Madison Marie McIntosh (Delia), Yuka Maruo (Modestina) e Riccardo Fioratti (Antonio).
Sul podio della Filarmonica G.Rossini, il messicano Ivan Lopez-Reynoso mostra un'estroversa passionalità, anche coinvolgente, ma non perfettamente in linea con questo repertorio, che non pare il più congeniale al suo temperamento. L'accompagnamento del canto appare per lo più attento alle diverse esigenze nei tempi e nelle sonorità, tuttavia non mancano imprecisioni e attacchi confusi, come nel sestetto “Non pavento alcun perglio” o in “A tal colpo inaspettato”.
La messa in scena di Sagi, ripresa sempre da Elisabetta Courir, si arricchisce di un patrimonio di dettagli portati in dote, di anno in anno, dall'estro dei diversi interpreti e vedendo oggi Macchioni esibire sul ventre una dichiarazione d'amore per Corinna è difficile non pensare al Belfiore del 2011 (Giorgio Misseri) che per primo improvvisò, sulle cosce, un finto tatuaggio del genere. Se poi il livello attoriale varia e di anno in anno una scena può risultare più o meno brillante, questo è nell'ordine delle cose per quattordici anni di riproposte ininterrotte.
Una gradita novità è però arrivata nel finale, quando il re bambino è apparso alla testa di un corteo di coetanei coronati. Sono i piccoli partecipanti del Viaggetto a Reims, laboratorio musicale per i più piccoli proposto dallo scorso anno proprio in concomitanza con le recite dell'Accademia. Vedere questa ventina di bimbi entrare in sala e leggere nei loro volti la meraviglia per quel che avveniva sul palco e per la sala del Rossini assorta nello spettacolo di cui loro stessi sono giunti a far parte è stato il riconoscimento più bello. Più importante dei pur copiosissimi applausi.
foto Amati Bacciardi