L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Rossini francese nella foresta nera

 di Luca Fialdini

G. Rossini

Moïse et Pharaon

Birkus, Balbo, Bills, Dalla Benetta

direttore Fabrizio Maria Carminati

Virtuosi Brunensis

Górecki Chamber Choir Kraków

Registrato a Wildbad nell’estate 2018, Festival Rossini in Wildbad

3 CD Naxos 8.660473-75, 2020

Moïse et Pharaon e l’antecedente Mosè in Egitto rappresentano un curioso caso all’interno dell’opera di Rossini: sin dalla prima rappresentazione hanno diviso gli spettatori (tanto i fedelissimi quanto gli apostati) tra i sostenitori dell’uno o dell’altro o semplicemente suscitato dubbi sul soggetto in sé; il rilievo non è da poco se persino Stendhal, comandante in capo alla partigianeria rossiniana, giudicò negativamente il lavoro. Ad ogni buon conto il Pesarese doveva tenere davvero in gran conto Mosè in Egitto per scomodarsi a redarne due versioni, a trasformarlo in un grand-opéra francese (Moïse et Pharaon) e ad autorizzare una traduzione italiana di quest’ultimo. Ogni pagina del Moïse stilla grandeur: gli atti passano da tre a quattro, il primo si gonfia sino a raggiungere proporzioni monumentali e il ruolo di Mosè ingigantito come l’ombra che proietta sugli altri personaggi, il tutto in una nuova struttura dalle proporzioni e dal respiro tali da lasciare esterrefatti.

Così la vita del Moïse, forse anche per la sua natura ardita (se non addirittura rivoluzionaria), ondeggia tra ovazioni e dubbi, perplessità e meraviglia e - dopo la riscoperta dell’antico Mosè in Egitto grazie al Rossini Opera Festival - tra i sostenitori dell’uno o dell’altro titolo. Ogni occasione di ascolto di questa pagina straordinaria è più che gradita e desta sincera curiosità la rappresentazione del 2018 alla 30^ edizione del Rossini in Wildbad che Naxos ha pubblicato quest’anno.

La prima cosa che salta all’orecchio è la qualità non strepitosa delle riprese audio: di certo l’acustica della Trinkhalle (nomen omen) non è delle migliori specialmente, però una maggior pulizia di suono in un’incisione discografica è lecito aspettarsela, specialmente se un suono “sporco” e osteggiato da rumori ambientali rischia di inficiare il risultato finale. Ma per amore di Rossini si passa sopra anche a questo, specialmente se il prodotto dimostra di possedere ottime frecce al proprio arco, prima fra tutte la direzione di Fabrizio Maria Carminati.

Brillante, intensa, senza dubbio sentita e capace di regalare gustose iridescenze nelle colorature, la bacchetta di Carminati si dimostra all’altezza di una partitura tanto complessa e di ottimo sostegno al cast vocale; interessante come viene sottolineato il côté marziale delle marcette - foriere di quella ben più nota del Nabucco di Verdi -, forse un po’ dure per le orecchie dei loggionisti autoctoni ma uscite dalla penna del più tedesco dei nostri operisti (ascoltate quanto è strepitoso nel duetto Anaï/Aménophis il passo "Ah ! le signal se fait entendre"). Unico - vistoso - neo alcuni tempi un po’ troppo affrettati che spengono la tensione drammatica.

I punti di forza dell’esecuzione sono i concertati, resi in modo eccellente e con grande attenzione alle voci, soprattutto al coro. A proposito di quest’ultimo, il Górecki Chamber Choir si presenta ormai rodatissimo in casa Rossini: generalmente compatto e di ottimo effetto, con qualche occasionale cedevolezza della sezione femminile, regala momenti di notevole pathos nei corposi assiemi. Buoni i Virtuosi Brunensis, che ormai dovrebbero conoscere le partiture del Pesarese a menadito, ma che ancora indugiano in alcune imprecisioni: niente di grave, semplicemente dànno fastidio.

Il basso Baurzhan Anderzhanov - che si avvale di una voce scura e granitica - si presenta con successo nella duplice veste di Osiride/Voce dal roveto ardente; meno felice la scelta di Albane Carrère, la cui Marie è di certo onesta e dignitosa ma non brilla. Buona prova da parte di Patrick Kabongo (Éliézier) che dimostra ottimo controllo e si rivela solido punto di riferimento negli assiemi. Debole, per quanto esigua la parte, l’Auphide di Xiang Xu e dalla dizione poco chiara.

Silvia Dalla Benetta torna a vestire i panni della consorte del Faraone e interpreta una Sinaïde d’eccellenza: nobile e altera, ma sempre con un’intensa luce di umanità, impeccabile nelle colorature della parte, domina maestosa il finale del II Atto e ci regala uno dei momenti più alti dell’intera esecuzione per pulizia tecnica, espressività e padronanza di un ruolo che ormai le appartiene. Ottima Elisa Balbo nella parte di Anaï, tanto nei duetti quanto nell’imponente aria del IV Atto; da sottolineare la capacità di adeguarsi - apparentemente senza sforzo e, anzi, a suo agio - ai differenti colori che la partitura e le situazioni drammaturgiche le richiedono: ora brillante e travolgente, ora immersa nella drammaticità, ora lirica ed eterea: la voce ricca di armonici e il timbro fresco e limpido uniti a una solida tecnica rendono l’interpretazione della Balbo di primo piano.

Davvero notevole il comparto maschile principale, a cominciare da Aménophis che qui ha la voce del tenore Randall Bills. La resa è buona e Bills funziona tanto nei duetti quanto negli assiemi, grazie a una vocalità slanciata e dall’intonazione ineccepibile; eccellente il duetto Aménophis/Faraone tolto direttamente dal Mosè in Egitto ("Moment fatal!"), in cui Bills dimostra di essere all’altezza di un ruolo impervio. Quel che ancora gli manca è acquisire un po’ di morbidezza, specialmente nel registro acuto, e perdere quelle rigidità che mal si sposano con la scrittura di Rossini.

Il basso Luca Dall’Amico interpreta il Faraone e per fortuna possiede un timbro nettamente diverso dall’altro basso protagonista, il Moïse di Alexey Birkus. Dall’Amico dimostra una versatilità sorprendente: la sua voce possente e profonda è capace di brillare tanto nei momenti più drammatici quanto nelle colorature e nelle ardue variazioni scelte per la rappresentazione. Il russo Alexey Birkus è un Moïse di spessore, in special modo nei momenti che più coincidono con il suo ruolo di profeta oracolante, come nel caso dell’invocazione per scacciare le tenebre ("Arbitre suprême du ciel et de la terre") e naturalmente della preghiera corale che nella versione francese diviene "Des cieux où tu résides". Birkus ha tutto quello che il profeta biblico richiede: imponente, con una voce che fa vibrare corde davvero profonde nell’ascoltatore, e nei momenti in cui è accompagnato dagli ottoni il suo timbro si fonde perfettamente con questi, conferendogli un’aura mistica senza pari.

A impreziosire l’operazione discografica, il reintegro dei ballabili del II Atto (in realtà due su tre) e del conclusivo Cantique del IV Atto, un’autentica apoteosi finale che suggella un Moïse et Pharaon di sicuro interesse, tanto per i rossiniani incalliti quanto per i neofiti.


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