L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fitelberg, musica da camera

Il dovere di ragionare

 di Andrea R. G. Pedrotti

 

J. Fitelberg

Chamber Works

ARC Ensemble

CD Chandos - Music in Exile première recordings - CHAN 10877 2015

È la seconda volta che ci accingiamo a recensire un disco della collana Music in Exile, incentrata su musicisti ebrei costretti ad abbandonare la terra natia, nel dramma che per questo popolo si è ripetuto, si ripete e, purtroppo temiamo, si ripeterà ancora nella storia.

Nel nostro precedente articolo avevamo presentato una monografia dedicata Paul Ben-Haim [leggi la recensione]; questa volta tocca a Jerzy Fitelberg: un ebreo americano di origine polacca, figlio di Grzegorz Fitelberg, violinista, compositore e direttore d’orchestra al quale la Filarmonica della Slesia ha voluto, dal 1979, dedicare un concorso.

La musica di Jerzy Fitelberg ha molto di ebraico, infatti non v’è una sola nota che sia radice significante di una ramificazione straordinaria di significati. Se in una giornata in cui la mente sia abbastanza libera da preconcetti ci si accinge nella lettura delle prime righe della Genesi in ebraico biblico, la lettura del testo può apparire semplice, se non fosse che da ogni più piccolo dettaglio (solo in originale, non nelle traduzioni) è possibile cogliere una serie di sfumature che lasciano incredibilmente aperta la capacità di ragionamento e lo stimolo all’interpretazione. Pensare, scavare i significati, scomporre e ricomporre sistematicamente, di continuo, senza pace, ma nella quieta consapevolezza che tutto questo è destinato a rinnovarsi senza sosta, come la natura di tutte le cose, in un ciclo senza fine. Il significato di una vita, che non ha ragione se non il dovere di essere vissuta senza rifiutarsi mai di capire, di contestare, o, perché no, polemizzare.

Jerzy Fitelberg era un ebreo polacco nato a Varsavia. Lui non è più fisicamente fra noi, ma la sua opera sì, come è rimasta quella di altri ebrei che la furia antisemita dell’Europa degli anni Trenta tentò di distruggere fra le fiamme dei Bücherverbrennungen (roghi di libri): bruciare la carta nell’idea di cancellare un pensiero, esattamente come l’Isis oggi, appellandosi a un integralismo che con la religione di cui si professano portavoce nulla ha da condividere. Nazisti e Isis, tuttavia, commisero e commettono tuttora un errore di ragionamento (plausibile da parte di chi al ragionamento è avverso), poiché loro speme era distruggere “un” pensiero, ma l’antisemitismo punta a qualcosa che non può realizzare, ossia distruggere “il” pensiero. Chi ci ha letti attentamente non può esimersi dall’intendere che non si sta attribuendo a nessuna forma di ragionamento la qualifica di “migliore” rispetto a un’altra, ma al ragionamento in quanto tale, sì. Nessuno può imporre un’interpretazione, ma va contestata e discussa di continuo, incessantemente. Una delle essenze dell’ebraismo, unica religione capace di contestare persino se stessa nel nome della ragione.

Nelle note di Fitelberg è presente una sensazione di abbandono, quasi di dispersione controllata. La strumentazione si avvicina molto a quella popolare ashkenazita. Ebrei tedeschi dall’epoca medievale, con un concetto religioso assolutamente non in contrapposizione con la scienza. Ricordiamo che Albert Einstein, sebben ateo dichiarato, affermò che, privo del suo retroterra culturale, non sarebbe mai riuscito a porre su carta le sue teorie. Perché citiamo un fisico? Perché in tali comunità, proprio nel medioevo, si sviluppò una forma mentis algebrica, quasi algoritmica, una sorta di “feticismo del numero” che proseguiva la scienza narrata nell’Organon, e in altri testi, di Aristotele. Le note delle musiche di Fitelberg sono concatenate in un linguaggio musicale densissimo di significati, che non è somma di addendi intercambiabili. Abbiamo parlato di Aristotele perché la sequenzialità della musica ebraica è paragonabile a un perfetto algoritmo linguistico, strutturalmente sovrapponibile a come la scienza narra la nascita del cosmo secondo la prassi scientifica, al principio della Genesi, fino all’universo infinitamente piccolo, come un filamento di DNA. Le note si fanno nucleotidi: a cambiar loro posto il risultato cambia eccome.

I cinque movimenti del primo brano, il Quartetto n. 1, si susseguono precisi, quasi fossero un racconto. La storia non viene mai meno, secondo un concetto che, per esempio, riscontriamo costante anche nelle sinfonie di Gustav Mahler. Ci piace soffermarci su un piccolo dettaglio di un brano che sarebbe da ascoltare con attenzione, intenso dall’inizio alla fine, anche nel singolo pizzicato. Il primo movimento è indicato con il tempo di “Presto – Meno mosso – Tempo I”, poi abbiamo un crescendo di intensità con i successivi tre movimenti: “Andante”, “Allegro”, “Molto allegro”. Qui pensiamo al “numero uno” e diventiamo un po’ feticisti delle cifre anche noi. Un’altra sinfonia (di Mahler, appunto) ordinata con il medesimo numero ci racconta una vita, come abbiamo avuto modo di esporre a seguito del nostro ascolto a Venezia, lo scorso marzo [leggi]. Oltre all’intensità, ai simboli, etc… di finemente ebraico nel brano di Fitelberg è il tempo indicato per il quinto e ultimo movimento: “Presto – Meno mosso – Tempo I”, una fine identica al principio. Nella numerologia ebraica il numero uno è rappresentato dalla prima lettera dell’alfabeto, la quale indica anche Dio, Abramo (il primo profeta) e il Messia. Il Messia non è l’ultima lettera, ma la prima: tutto torna nella vita, senza una fine, un circolo vizioso privo di attrito nel suo moto perpetuo. C’è l’alfa, ma non l’omega, la quale va inseguita con forza e determinazione, ma non esiste e non può esistere. Non bisogna mai sentirsi realizzati appieno, l’attenzione dev’essere vigile, bisogna sempre migliorarsi. Quando troveremo l’omega, quando ci sentiremo pacificamente realizzati, non saremo salvi, saremo morti.

Da notare che i due movimenti hanno quasi la medesima durata: un autentico specchio fra l’inizio e una fine che potremmo individuare come una palingenesi.

Molto bella anche la Serenade, che nella scrittura ha ben poco di languido, ma molto di intenso, passionale e misterico. È affidata al pianoforte e alla viola. Il tempo non si sfoga mai in un allegro pieno, è tutto un ritmo di accelerazioni, frenate all’improvviso, in uno strano sentore di insicurezza, l’insicurezza che alberga in ognuno di noi, palesandosi nel dubbio e nel tormento. L’ultimo movimento, tuttavia, è un Andante mosso che si chiude, all’improvviso, in un accordo secco. Il vaso è colmo e l’emotività esplode, in un secondo, come una forza idraulica.

Le Sonatine per due violini che seguono hanno meno il sentore del racconto, quanto quello del viaggio, dell’eterno peregrinare alla ricerca di qualcosa (forse l’omega?). È bello l’interscambio fra i due strumenti e l’idea di trasformare gli ultimi cinque dei sei movimenti totali, in una serie di variazioni del secondo. Particolarmente pregevole la “Variazione IV. Finale alla marcia”, quasi una spinta a non interrompere mai il proprio cammino.

Nel penultimo brano, ossia il Quartetto n. 2 (originariamente String Orchestra) ritroviamo la componente russa del pensiero ebraico della Slesia. Molti accordi ci rammentano da vicino quelli di un altro compositore del XX secolo, con talune dinamiche ed effetti significanti tipici di Igor Stravinskij e qui ritroviamo, alcune parti (ovviamente parliamo dello stile) che rammentano da vicino la celeberrima Le sacre du printemps.

Notevole anche l’ultimo brano: Nachtmusik, Op. 9 “Fisches Nachtgesang” per clarinetto, violoncello e celesta: un pezzo brevissimo, ma meraviglioso nel suo essere summa di tutti i concetti che abbiamo incontrato fino a ora.

Ciò che è stato descritto, la musica ebraica, potrebbe apparire come una qualcosa fatto di angoscia, incertezza e scoramento, ma non sarebbe una conclusione corretta e lo dimostra il fatto che l’ebraismo sia l’unica grande religione antica a essere giunta fino a noi. La sua vitalità  immutata è ben testimoniata dal testo di una splendida canzone popolare Yddish. È la storia di un ragazzo che si tormenta nel dubbio se rivelare o meno il suo amore a una ragazza e comincia a farle domande sciocche: “Fanciulla, dimmi di nuovo\cosa può crescere senza pioggia?\cosa può ardere per molti anni?\cosa può bramare e piangere senza lacrime?” e lei gli risponde, forse seccata (in una versione al termine gli romperà lo strumento sulla testa, perciò non doveva essere entusiasta né della sua corte, né delle sue domande): “Giovane sprovveduto, perché domandare ancora?\È la pietra che può crescere senza pioggia\È l’amore che può ardere per molti lunghi anni\Ed è il cuore che può agognare e piangere senza lacrime.” La musica del dialogo è intensa, lei appare materna e lui teso innanzi alla donna delle sue brame, la quale - con la saggezza che il più volte citato Gustav Mahler seppe narrare nella sua Ottava sinfonia - canta, assieme al coro, un’esortazione niente affatto insensata, dal tono lieto, riguardo la quale lasciamo libera interpretazione al lettore: “tumbalalaika - freylach zol zayn”, che in lingua Yddish significa: “suona la balalaika – cerchiamo di essere allegri”. Per la cronaca il titolo di questa canzone popolare è proprio “Tumbalalaika”.


 

 

 
 
 

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