Sei per uno
di Roberta Pedrotti
E. Ysaÿe
Sei sonate per violino op. 27
Schlomo Mintz, violino
registrato il 12 e il 13 marzo 2017 ad Hannover
CD DECCA 481 8058, 2019
Le sei sonate op. 27 (1823) di Eugène Ysaÿe (1858-1931) sono una sorta di testamento artistico di quello che possiamo a buon titolo considerare il padre del violinismo moderno, così come Paganini (1782-1840) e Joachim (1831-1907) erano stati gli emblemi di quello del primo e del secondo Ottocento. Ciascuna dedicata a un diverso solista della nuova generazione, le sonate non hanno un carattere formale omogeneo, ma spaziano dalla classica ripartizione in quattro movimenti a un'unica arcata a mo' di rapsodia, utilizzano definizioni tratte dalla suite barocca (Allemanda e Sarabande nella quarta), dalle indicazioni agogiche (Grave, Fugato, Allegretto poco scherzando e Finale con Brio nella prima, Allegro giusto non troppo per la sesta) o ancora da suggestioni poetiche e didascaliche (Obsession, Malinconia, Danse des Ombres, Les Furies per la seconda, Ballade nella terza, L'Aurore e Danse Rustique nella quinta). Già in questa varietà, Ysaÿe sembra delineare la possibilità di strade diverse, di diverse inclinazioni, e nel contempo cogliere l'unità nella molteplicità, la molteplicità nell'unità. Lo stesso omaggio allo stile e alle personalità di giovani colleghi stimati è l'occasione per tracciare principi comuni in cui questi possano svilupparsi e fiorire: ancora una volta sintesi di elementi distinti, l'atto creativo è tecnica e invenzione, composizione e interpretazione. In effetti il prontuario di tecnica violinistica moderna che pur si riconosce in queste sonate, dedicate a virtuosi di prima sfera, getta anche un ponte verso un Novecento che non è solo speculazione compositiva, ma si sviluppa in simbiosi con le istanze concretissime dell'esecuzione, con lo stesso potenziale dello strumento e dello strumentista portato alle estreme conseguenze da chi suona e da chi compone, nell'ideale di Ysaÿe uniti in un'unica figura demiurgica.
Se anche ogni sonata ha una ben precisa tonalità d'impianto e non spezza dunque il legame con la tradizione, se l'elaborazione melodica è ben distinguibile seppur con approcci poliedrici, tratti estremi di questa scrittura solistica sembrano filtrare molto delle avanguardie recenti e non di meno presagire di quelle future.
Uno e molteplice, Shlomo Mintz raccoglie l'eredità dei sei predecessori (Szigeti, Thibaud, Enescu, Kreisler, Crickboom, Quiroga) e del demiurgo Ysaÿe. Lavora a fondo sul testo, con acribia filologica nel confronto fra fonti, manoscritti e versioni, ma anche libertà d'artista nel selezionare le soluzioni che distillino al meglio la sua lettura delle sonate, con lo spirito d'un omaggio sentito e sincero. La summa di un pensiero artistico declinata nella dedica a sei violinisti torna nell'archetto di un unico interprete a indagare quel pensiero, la sua unità e la sua molteplicità. Che Mintz sia uno dei più grandi violinisti viventi non è un mistero, ma più ancora della tecnica impeccabile, del dominio assoluto del suono e dell'intonazione, lo rende tale la capacità di dipanare un testo come questo nell'unità e nella molteplicità, nello scontornare il melos più o meno nascosto come il funambolismo più spigoloso, l'eco di Bach e lo spettro dell'ignoto futuro e mantenere sempre un'identità riconoscibile di interprete e creatore che di tecnica e creazione un unico pensiero.