L’amore che invenzione
di Carla Monni
La Carmen di Georges Bizet apre Un’Isola di Musica, la rassegna estiva del Teatro Lirico di Cagliari che fra melodramma, opéra-comique, popolari canzoni napoletane, orchestra d'archi e jazz propone quest’anno ventiquattro spettacoli in dieci differenti località isolane.
CAGLIARI 02 agosto 2015 – La rappresentazione della Carmen di Georges Bizet ha aperto la rassegna Un’Isola di Musica 2015 promossa dal Teatro Lirico di Cagliari, che Settantasei anni dopo ha riportato l’Opera al Teatro Civico di Castello, luogo suggestivo che ora rinasce dopo i bombardamenti avvenuti nel 1943 e la conseguente e lunga ristrutturazione di quella struttura neoclassica realizzata da Gaetano Cima. Il 6 giugno 1939 andò in scena l’ultima opera I quattro rusteghi di Wolf-Ferrari, una commedia musicale in tre atti allestita per il principe di Piemonte – diventato poi re d'Italia – Umberto II di Savoia. E dopo aver ospitato rassegne letterarie e cinematografiche e diversi spettacoli di musica, ora la Lirica irrompe il palcoscenico del Teatro Civico con l’opéra-comique bizetiana, presentata in forma semiscenica.
A calcare il palco la presenza di soli quattro personaggi – la zingara Carmen, il tenente Don Josè, il torero Escamillo e la contadina Micaela – introdotti dall’intrigante attore Marco Spiga, che ha firmato anche la regia dell’opera. La voce narrante, quasi onnisciente, racconta i fatti nelle vesti di Prosper Mérimée – da cui lo stesso Bizet trasse la sua opera – anticipandone a parole la storia.
L’opera cagliaritana si presenta assai diversa da quella che siamo soliti leggere, vedere o ascoltare. D'altra parte, l'opera è entrata nell'immaginario comune prestandosi a continue metamorfosi: si pensi, infatti, al solo personaggio di Carmen, nei secoli interpretata nelle più svariate e bizzarre forme, come per esempio nel caso di Grace Chang, attrice degli anni Sessanta, che si cimenta in una Habanera suonando la chitarra elettrica. La vivace e assolata Siviglia viene ora avvolta da una scenografia minimalista, un ambiente suggerito da Angelo Canu con una modesta scala di ferro che collega il palco al graticcio. Sobri sono i costumi di Beniamino Fadda, i cui colori giocano sul nero e sul bianco, ben lontani dalle tinte calde dei consueti abiti spagnoleggianti. Sono piuttosto la coreografia di Marina Claudio e le luci di Marco Mereu a tingere il paesaggio sivigliano. Tra le nuance rimane il rosso, il colore di Carmen, gitana fiera e combattiva che rivendica piena libertà sulla vita e sul corpo, donna che non intende sottomettersi ad alcun uomo se non per amore, e accetta infine di farsi uccidere – in un incendio di luce color sangue – dall'amante che intende abbandonare, il caporale Don José, un Francesco Anile dalla voce piena di potenza e delicatezza.
Ma è soprattutto nel duetto con Micaela, personaggio che incarna tradizione e valori familiari – interpretato da una sorprendente Arianna Vendittelli dalla seducente grinta femminile – e nell’aria della La fleur que tu m'avais jetée, che il tenore intona sottilmente tutte le sfumature, che culminano nel confronto finale con Carmen, in cui la voce si fa rotonda e morbida, nonostante non ci siano lacrime, ma solo coltellate.
Carmen – interpretata da una spensierata Giuseppina Piunti dalla vocalità agile e salda nella tessitura – ha sguardo sensuale, ma non volgare. Sembra infatti che il regista miri piuttosto a risaltarne il nome, derivante dal latino carmen, il cui significato è poesia, canto. Lei è donna concreta e libera, «l’amour est un oiseau rebelle», l'amore è un uccello ribelle, confida alla folla intonando la celebre Habanera; un amore che riserverà solo al toreador Escamillo, interpretato da un ironico ed euforico Paolo Pecchioli.
A fare da cornice al melodramma e a riportarci nella Siviglia mediterranea dal forte sapore latino, rimangono le melodie di Bizet, trascritte per piccola orchestra da Gerardo Colella e interpretate dall’Orchestra e il Coro del Teatro Lirico – diretti dal giovane Roberto Gianola – entrambi ridotti per l’occasione, suscitando un’atmosfera intima, ben lontana dalla ricca originaria orchestrazione bizetiana.
L’acustica inadeguata del teatro spesso ha tradito la vocalità dei cantanti, complice forse anche quell’architettura a cielo aperto «che ricorda lo straordinario Globe Theatre di Londra», come afferma Angela Spocci, sovrintendente del Lirico, ma in cui il pubblico ha potuto immergersi pienamente nell’opera attorniato da una splendida notte stellata cagliaritana. Citando il testo della Carmen di Spiga, «all’inizio di tutto è sempre una donna, alla fine di tutto è la notte».