L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tra il fashion e i classici contemporanei

di Michele Olivieri

Il canale culturale ARTE ha trasmesso il 20 gennaio 2024 Elements, lo spettacolo firmato da Sidi Larbi Cherkaoui ripreso a novembre 2023 in apertura di stagione al Grand Théâtre de Genève di cui il coreografo ne è anche Direttore del Balletto. In scena tre allettanti creazioni: Noetic, Faun e Boléro, quest’ultima firmata con Damien Jalet e Marina Abramović.

GINEVRA novembre 2023 – Nato ad Anversa da madre fiamminga e padre marocchino, Cherkaoui nutriva il desiderio di diventare un artista visivo, uno scrittore e un musicista. All’età di quindici anni invece si ritrovò impiegato come ballerino nei varietà televisivi, esibendosi prima ancora di frequentare un corso di danza. Ha imparato il vocabolario hip-hop attraverso questi programmi televisivi, frequentando finalmente la sua prima lezione di danza classica a diciassette anni. A diciannove anni, dopo aver visto il lavoro della pioniera tedesca del teatro danza Pina Bausch (di cui il primo lavoro che andremo a recensire è intriso di suggestioni, spunti e rievocazioni), ha preso coscienza che la danza contemporanea fosse la sua strada da perseguire. Sidi Larbi Cherkaoui è un narratore di storie e un giocoliere di idee, e nella maggior parte del suo lavoro le parole e le immagini sono importanti quasi quanto la danza. Elements riunisce tre suoi lavori passati in un focus sull’essere coreografo. L’armonia tra ballerini e musica è costantemente palpabile in ogni singolo pezzo, sotto la direzione musicale di Yannis Pouspourikas alla guida dell’Orchestre de la Suisse Romande con la regia televisiva di Romain Girard (registrato il 21 e 22 novembre 2023 a Ginevra dalla RTS Radio Télévision Suisse, Arte G.E.I.E., in coproduzione con Actua Films SA).

Noetic (creato nel 2014 per la compagnia svedese GöteborgsOperans Danskompani) si apre con una arcaica e incandescente sequela di percussioni a opera del virtuoso compositore giapponese Shogo Yoshii (tamburo taiko, kokyu e fué), che fa trasparire un mirato interesse per la musica popolare e per quella tradizionale del suo Paese adattata alla danza. A seguire viene introdotta la partitura sinfonica del compositore polacco Szymon Brzóska in una valida sinergia tra musica e disciplina contemporanea con la voce di Miriam Andersén (vestita da celebrity status) che risveglia la mente. L’ambientazione si sposta dalle suggestioni dell’argilla alla sofisticatezza ispirata al mondo sartoriale delle metropoli di tendenza per i ballerini. La scena presenta un cubo bianco a taglio aperto e i piedi nudi dei danzatori si alternano ai tacchi a spillo che prendono idealmente il posto delle punte, una semplice invenzione scenica sicuramente sempre ad effetto ma già portata in scena negli anni passati, e in particolare alla fine degli anni novanta nel dramma coreografico L’angelo azzurro realizzato da Roland Petit e ispirato all’omonimo film interpretato da Marlene Dietrich, visto anche alla Scala con le étoile Luciana Savignano e Oriella Dorella. I danzatori maschi vestono rigorosamente in giacca, gilet e cravatta con uno stile libero e anticonformista, rifacendosi al passato degli artisti appartenenti alla Scapigliatura senza mai perdere l’allure del portamento. La drammaturgia (a firma di Adolphe Binder) è una stretta unione fra più elementi, una giuntura tra mondi umani differenti che si cercano e si intersecano. È un liberare il potenziale e la creatività architettata sulle abilità, nonché sulle competenze del coreografo, delle maestranze e degli esecutori. Le strisce di fibra di carbonio pensate da Gormley si piegano in cerchi trasformandosi in partner per assoli, passi a due e scene di gruppo, rivelando nuove estetiche e forme. All’unisono, tutti gli elementi che concorrono alla messa in scena sono “materiale plastico” che lavorato si modifica in linee, dritte o curve, di pulitura e levigazione. Operazione lunga ed abbastanza faticosa in termini di tecnica corporea, ma alla fine questa duttilità rende la visione acquiescente, facilitandone la comprensione. I ballerini (Yumi Aizawa, Céline Allain, Jared Brown, Adelson Carlos, Anna Cenzuales, Zoé Charpentier-Quintin Cianci, Oscar Comesaña Salgueiro, Diana Dias Duarte, Ricardo Gomes Macedo, Armando Gonzalez Besa, Zoe Hollinshead, Mason Kelly, Emilie Meeus, Léo Merrien, Stefanie Noll, Juan Perez Cardona, Luca Scaduto, Sara Shigenari, Geoffrey Van Dyck, Nahuel Vega, Madeleine Wong) una volta modellati algebricamente da Sibi Larbi Cherkaoui (da citare i ripetitori coreografici per l’esemplare lavoro: Manuel Renard, Angela Lee Rebelo e Stephan Laks) raggiungono una tale versatilità del movimento come se fossero nudi e, di conseguenza, totalmente liberi di esprimersi. Il coreografo in questo pezzo “matematico” ritorna alle sue origini, come già detto a inizio recensione, quando voleva diventare un artista visivo. Infatti il suo vocabolario di danza impastato di design, musica, costumi, luci (ad opera di David Stokholm) e non solo non conosce limiti. È una fusione equilibrata tra il bianco e il nero mai sopra le righe. Si legge inoltre un significativo accenno alla non identità di genere, al non sentirsi rappresentati né dall’etichetta di uomo, né da quella di donna. L’unica differenza è nell'energia profusa e nella flessibilità immaginativa.Noesis sta a significare “conoscenza attraverso l’intuizione” e proprio il testo recitato dai ballerini (e qui tornano i riferimenti a Pina Bausch) è stato trascritto dal discorso dello scienziato Max Rodin Coil sulla geometria alla base dell’universo. Lo spettatore è portato a co-creare il personale significato all’interno della performance collettiva illuminando nuove forme che nascono e si smontano con rapidità per finire all’interno della sfera atomica.

Faun apre la seconda metà della serata ed è una rilettura coreografica del leggendario originale più in linea con il nostro contemporaneo, pur rispettando i rimandi all’arte neoclassica. I due bellissimi danzatori, Geoffrey Van Dick e Madeleine Wong, appaiono carnali, viscerali, ancestrali e potentemente carismatici. Nella mitologia, le ninfe non erano caste, apparivano amorose e libere. E ciò è esattamente l’immagine che Sibi Larbi Cherkaoui restituisce al pubblico con una danza aitante, prestante e seducente (i costumi sono di Hussein Chalayan). Storicamente questo pezzo si rifà allo scandaloso e poi celebrato Après-midi d’un Faune di Vaclav Nijinsky, rappresentato per la prima volta a Parigi il 29 maggio 1912 dai Ballets Russes di Diaghilev. Allora i gesti schematici erano regolati soltanto dalla geometria mentre i passi e le movenze apparivano del tutto estranei al repertorio in voga. Cherkaoui trasforma la gestualità in un qualcosa di più caldo e fluente riscrivendo la meccanica del movimento, quasi fosse una locomozione generata da ondulazione, spasmo ed elasticità senza interruzione di continuità e spigolosità. Ogni passo è connesso a quello precedente e a quello successivo da un insieme di legazioni trasversali tra contrazioni e distensioni che diventano punti di slancio su cui prendere velocità e respiro. Naturalmente la fisicità dei due esecutori predomina su tutto ed è giusto sia così. L’essenza infatti risiede nella corporeità, nella materialità e nella concretezza dei corpi che diventano i protagonisti assoluti della coreografia, come “corpi magnetizzati” in grado di attrarre indissolubilmente lo spettatore. La partitura musicale, come nell’originale, porta la firma di Claude Debussy, con alcune aggiunte di matrice contemporanea per mano del compositore Nitin Sawhney che immette (senza disturbare) sonorità multiculturali e spirituali. Aspetto meno riuscito appare quello delle videoproiezioni, non per quanto concerne il lavoro di Adam Carrée (qui anche scenografo e ideatore delle splendide luci), ma quanto sull’ormai dilagante uso di tale pratica che sovente risolve frettolosamente senza aiutare in teatralità. Faun omaggia “il mito nel mito”, e lo fa con effervescenza e sentimento. Dal fiammeggiante desiderio di Nijinsky del primo Novecento al risveglio erotico di Cherkaoui del secondo millennio.

Per gran parte della sua carriera, uno dei collaboratori più frequenti di Cherkaoui è stato il coreografo franco-belga Damien Jalet, che ha assunto come attuale coreografo-associato al Grand Théâtre de Genève. Il loro rapporto professionale risale ai primi anni 2000, quando entrambi erano interpreti con la compagnia les ballets C de la B fondata da Alain Platel nel 1984, diventata nel tempo di grande successo in patria e all’estero e che nel corso degli anni ha sviluppato una piattaforma artistica per una moltitudine di giovani coreografi in un continuo e dinamico processo creativo. Oggi le due compagnie di danza residenti a Gent, Kabinet e ben appunto les ballets C de la B, continuano il loro lavoro sotto un nuovo nome: laGeste. Dopo questa piccola premessa parliamo del terzo ed ultimo pezzo presentato. Boléro è stato creato in tandem nel 2013 per l’Opéra di Parigi. Lo spunto nasce dal suggestivo lavoro di Marina Abramović, la guru della performance art,basato sulla ricerca e sperimentazione dell’antitesi tra i limiti del corpo e le possibilità della mente. Cherkaoui e Jalet l’hanno invitata a unirsi nella creazione in qualità di scenografa e concept-artist per questo adattamento dal profumo “angiolesco”. Certamente la più leggendaria versione ancora oggi rimane quella di Maurice Béjart, portata in scena con il suo Ballet du XXe siècle nel 1961 al Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles. La partitura di Ravel ha trovato con Béjart un’interpretazione coreografica magistrale, sia maschile sia femminile. Molti grandi artisti hanno calcato il tavolo rotondo: basti ricordare Jorge Donn, Patrick Dupond, Maya Plisetskaya, Carla Fracci, Sylvie Guillem, Julien Favreau, Elisabet Ros, Diana Vishneva, Charles Jude, Friedemann Vogel, Roberto Bolle, Suzanne Farrell, Grazia Galante, Claude Bessy, Marcia Haydée, Eric Vu-An, Richard Cragun, e naturalmente Luciana Savignano. Una curiosità ben nota riporta alla sera del debutto della partitura, quando un’anziana signora nel pubblico esclamò rivolgendosi a Ravel: “Voi siete pazzo!”. Il compositore osservò “Quella vecchia signora ha capito il messaggio!”. Tornando alla coreografia, senza alcun riferimento al passato, il trio formato da Cherkaoui-Jalet-Abramović (con assistenti Pascal Marty e Aimilios Arapoglou) crea il suo Boléro riferendosi agli angeli e alla loro capacità di volare e spostarsi ovunque. Almeno questa è la sensazione soprattutto nel finale. Ciò non vuol dire che la drammaturgia attinga solo al bene, ma si appoggia al principio duale dell’esistenza. Ballerini vestiti di nero con i volti truccatissimi girano e cadono, sdoppiati da un colossale specchio posto dietro di loro per volere della Abramovic al fine di creare un vortice turbinoso. L’effetto spesso è da capogiro, si ha una sensazione di vuoto dovuta alle improvvise variazioni di percezione del movimento, una sensazione di vertigine e di accelerazione. La danza ricorda quella macabra sviluppata sul tema iconografico tardo-medievale tra uomini e scheletri (sotto ai mantelli i danzatori indossano tute color carne con stampe di ossa) in cui la superiorità della morte è palpabile con una simbologia di carattere esoterico. Questo giudizio universale porta con sé un peso profondo nelle intenzioni dei creatori. Il movimento impresso da parabole, svolte, tratti non rettilinei e speditezza è costante per gli efficaci ballerini (Yumi Aizawa, Zoé Charpentier, Quintin Cianci, Oscar Comesaña Salgueiro, Zoe Hollinshead, Julio Léon Torres, Emilie Meeus, Léo Merrien, Juan Perez Cardona, Sara Shigenari, Nahuel Vega). È un Boléro di gruppo, per lo più creato su immagini che non potrebbero verificarsi in maniera naturale o spontanea. Infatti gli effetti ottici e le riprese video a firma di Anouar Brissel la fanno da padroni. È un balletto che a prescindere dal titolo trasporta lo spettatore sull’orlo di un vulcano in ebollizione dove nulla può ostacolare l’imminente distruzione. A meno di una rinascita a nuova forma di vita, dopo la purificazione.

Un meritato applauso ai ventidue straordinari ballerini del Grand Théâtre de Genève ben formati nella danza classica accademica con una solida base contemporanea che li rende completi in equa tecnica. La Compagnia risulta a oggi una delle migliori sulla scena internazionale per trasversalità e coesione e lo si ammira con gaudio.

Michele Olivieri


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