La lama del belcanto
di Roberta Pedrotti
G. Verdi
Attila
D'Arcangelo, Piazzola, Siri, Sartori
direttore Michele Mariotti
regia Daniele Abbado
orchestra e coro del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, Teatro Comunale, gennaio 2016
DVD Cmajor 748708, 2019
Considerato figlio di un dio minore sulla strada per divenire maggiore, offuscato dalla gloria di quel che verrà e in quella gloria futura quasi condannato a ritrovare la sua ragion d'essere, il Verdi "di galera" sembra tuttora alla ricerca di un vero riscatto. Emancipata dall'aria di sufficienza e dallo stereotipo barricadero che la ammantava, giunta a distanza ravvicinata a inaugurare la stagione della Scala con edizioni lussuosissime [leggi le recensioni di Milano, Giovanna d'Arco, 21/12/2015 - DVD, Verdi, Giovanna d'Arco e Milano, Attila, 07/12/2018], la produzione verdiana precedente a Rigoletto, letta con consapevolezza storica e stilistica, può mostrare tutto il suo valore, la sua complessità, i dettagli raffinati della costruzione. Si dice, e si dirà, che i personaggi dell'Attila sono come tagliati con l'accetta, sbozzati con energia più che con lavoro di cesello, eppure, se si legge con attenzione il libretto di Solera ci si renderà conto di quanti sofisticati riferimenti contenga, in una forma letteraria plasmata sulle istanze del primo romanticismo, del suo linguaggio aspro, colorito, plastico, il linguaggio di chi si distaccava dal poetare neoclassico e guardava alle traduzioni di autori contemporanei o ai loro calchi da parte di Berchet o Maffei. La drammaturgia è rapida, ellittica, impellente, c'è poco spazio per l'introspezione, ma ciò non significa che la musica non esprima sottigliezze e ambiguità, che non sbalzi, nel caso di Attila un contrasto non manicheo fra i poli etici e politici del condottiero eponimo e del generale romano Ezio, una figura femminile tanto irruente quanto tormentata, un tenore che vede la sua bidimensionalità motivata nella funzione di rigoroso eroe fondatore di Venezia.
La produzione bolognese del 2016 si inserisce a meraviglia in una rinnovata, moderna sensibilità verso questo repertorio e verso Attila in particolare, letto da Michele Mariotti con gesto agile e asciutto, perfino tagliente talora nel calibrare i pesi e le declinazioni di un colore fosco, uggioso, ma non uniforme, anzi, sempre mobile nel variare della luce e del calore. È un Attila belcantista senz'altro, con il suo respirare duttile insieme con le voci, con la presenza di uno specialista (anche) mozartiano e rossiniano come Ildebrando D'Arcangelo nel ruolo eponim. Ma, più dell'agilità, della duttilità, dell'esuberanza che un Assur e un Don Giovanni non possono non portare in dote al condottiero unno, qui si mette a profitto l'esattezza asciutta dell'emissione, con l'umanità controversa di Attila a emergere proprio nell'accento secco di un uomo d'armi fiero e spiccio, che esprime la sua autorevolezza e il suo onore non nell'espansione tonitruante, ma nell'essenzialità della parola cantata. Perfetto, allora, è l'equilibrio con l'Ezio di un Simone Piazzola in splendida forma, timbro suadente, fraseggio nobile quanto fermo e deciso nella sua risoluzione politica. È un piacere riscoltarlo così, dopo il ricordo sfortunato della recita seguente, che aveva retto eroicamente ma era stato costretto ad abbandonare prima dell'ultimo atto per un malore [leggi la recensione: Bologna, Attila, 24/01/2016]. Così come è un piacere tornare alla prima Odabella di Maria José Siri e apprezzarne la piena baldanza nella terribile sortita - e in generale in tutti i passi più accesi - al pari di una lettura ben tornita del non meno temibile "Fuggente nuvolo": forse una delle prove più convincenti e musicalmente rifinite del soprano uruguaiano. D'altro canto, di fronte al Foresto di Fabio Sartori, è tale la consuetudine del tenore veneto con la parte che poco o nulla vi sarebbe da aggiungere, se non che conferma la solidità della resa e s'inserisce senza problemi nella poetica della produzione, così come il collaudato Uldino di Gianluca Floris e il possente Leone di Antonio Di Matteo. Bene anche il coro e l'orchestra del Comunale di Bologna, in pena sintonia con la concertazione di Mariotti, allora direttore musicale del teatro.
Dello spettacolo firmato da Daniele Abbado resta poco da ribadire, benché si avvantaggi non poco dalla ripresa video che ci libera dai frequentissimi, interminabili e (data la staticità dell'impianto) poco comprensibili cambi scena. Tutto scorre più fluido, senza sorprese, in un'indeterminatezza temporale ben illuminata da Gianni Carluccio. Se qualche aggiunta al minimalismo, come le sagome accovacciate e decapitate in proscenio, risulta superflua, sono infatti le luci quel che alla fine più si apprezza dell'allestimento, funzionale a un'interpretazione pienamente convincente da parte di Mariotti e del cast, per un Attila, moderno, essenziale, raffinato e incalzante.